La Storia e le tradizioni della caccia agli uccelli acquatici
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Il maestro Giacomo Puccini e la caccia
Questa lunga pagina dedicata alla passione per la caccia di valle del maestro Giacomo Puccini è stata curata da Mario Fedrigo, appassionato cacciatore di valle ed amante della musica lirica.
Mario ha scritto ben due biografie sul Maestro e questa presentata di seguito e' una parte in cui viene esaltata la passione viscerale di Giacomo Puccini per l'attività venatoria e, in particolare, per la caccia in palude.



"Lo strumento che amo di più dopo il pianoforte è il fucile"
Giacomo Puccini



LA CACCIA

O falsa primavera di Maremma!
Planan pel cielo i falchi ad ali tese
pecore a mille e vacche tutta flemma
disseminate fino a Maccarese,
boschi di lecci e sondri e di mortelle,
marruche che ti strappan via la pelle,
cavalli stanchi su pei morti fossi,
branchi di corvi spolpatori d’ossi.
Oggi scirocco marcio,
com’è pesante l’aria!
Amici state attenti alla malaria.


Clicca per ingrandire la foto E’ dolce questa poesia composta il 29 dicembre 1920 alla Torre della Tagliata.
Raccontano che quel giorno Puccini “Si affacciò alla finestra del cinquecentesco edificio, guardò, meditando, la campagna circostante, prese la penna e scrisse, quasi di getto”.
A proposito della Tagliata riporto un ennesimo racconto di Marotti che riferisce di una colossale gaffe del Maestro.

“Puccini aveva in Maremma una torre doganaria. Vicino a Orbetello, sotto il promontorio di Ansedonia, la torre della Tagliata, che si può vedere ancora oggi dalla linea ferroviaria al casello 147 (cioè Km. 147 da Roma).
Sua Maestà il Re Vittorio Emanuele III era al corrente di questa proprietà del Maestro e gli chiese informazioni in proposito, quando lo incontrò a Roma in occasione della prima europea del ‘Trittico’.
Dopo l’esecuzione di Tabarro e Suor Angelica, Puccini stava osservando le scene dello Schicchi, in palcoscenico, quando arriva un aiutante di campo del Re che lo invita nel palco reale. Puccini si mise molto in agitazione, perché queste cose lo irritavano non poco e poi, secondo lui, non aveva un abbigliamento adatto per la circostanza. Pare che raccontasse di sentirsi “girare le scatole” e questo ‘giramento’ aumentava con i giri della scala a chiocciola che portava nel palco reale.
Entrato salutò il Re, la Regina Elena e stava per rivolgersi alla terza persona che era in palco quando il Re lo interruppe con delle domande, per cui non salutò la Duchessa d’Aosta, la quale gli chiese se si era trasformata al punto che il Maestro non l’aveva riconosciuta. Puccini era sempre più frastornato e impacciato. L’atmosfera di imbarazzo venne interrotta da Vittorio Emanuele che si rivolge a Puccini:

«E’ vero Maestro che ha acquistato un castello nei pressi di Ansedonia?».
«No, Maestà! Si tratta di un rudere, di una vecchia torre doganaria sotto il promontorio di Ansedonia, la chiamano Torre della Tagliata».
Il Re, non aveva molto bene presente dove fosse e allora cerca di localizzarla nella sua memoria:
«Torre della Tagliata?… Sotto il promontorio di Ansedonia?…».
«Ma sì Maestà, chissà quante volte l’ha vista! E’ lì sopra lo spacco della Regina...» (n.d.r. Veniva chiamato “Spacco della Regina” una zona di grotte del promontorio di Ansedonia dove appunto c’era la Torre della Tagliata).

Puccini così descrive la Torre della Tagliata:
«Ho una torre meravigliosa in Maremma, ora l’appresto ad abitazione e nell’inverno ci andrò a svernare. E’ vicina ad Orbetello, fra le rovine Romane ed Etrusche. E’ sul mare a 10 metri. C’è pesca e caccia in abbondanza. L’auto arriva alla porta, ha davanti l’isola del Giglio e l’Argentario; insomma è una vera delizia [...] Clima: Montecarlo, perché riparata dai venti del nord dalla collina di Ansedonia (città Etrusca). Ne vengo da due giorni e ne sono ancora meravigliato».

L’avv. Puccioni commenta
«Quando la Tagliata fu sua, parve l’uomo più felice del mondo, e poi passò anche quella che era stata una fissazione. Mistero!».

Ma Puccini era volubile, si stancò della Tagliata e la mise in vendita. Per realizzare questa operazione scrisse al suo amministratore e amico Antonio Bettolacci.

VIA VERDI, 4 - MILANO 16/2/1921

Caro Tonino, non ho venduto ancora la Tagliata.
Leonetto che la tratta mi ha ribassato il prezzo e io gli ho scritto che non se ne fa di nulla – non ho fretta.
Ti credevo a Sestri e invece sei al bozzo. Hai saputo, hai letto, della Ilva? Pare proprio che ci sia un tracollo – e allora la torba con nostra gioia (ma ormai...) se ne va a farsi friggere.
Povero Puccini che agonia dolorosa! E che perdita! Mondo! È così – e che ci vuoi fare? Io non lavoro – ancora - Lavorerò quando avrò il libretto.
Mª Bianca dov’è? Lasciami i frullini perché ho idea di venire un po’ a Torre. Di Milano sono saturo. Solo mi attarda l’idea delle persone [illeggibile] che son qui e non posso averne a Torre. E mangiare da Emilio anche facendomi servire in casa non mi va e poi stare in casa da solo non mi svagoccia – per lo cheuffeur e Nicche.
Ad Amburgo e a Praga Trittico gran successo.
Andai a caccia in una riserva magnifica – 36 germani – ma gli inviti non mi vanno e mi divertii poco. Spadellando anche: mi pareva di essere all’esame! Tutti gli occhi verso di me figurati io come divento bischero, allora!
Ritornando alla Tagliata la vendo ma 60.000 escluso mobilio biancheria etc. vuota o poco meno. Troverò?
Se no chi se ne frega! C’è il caso che mi ritorni in auge.
Tanti saluti da E. e Tonio
Tuo aff.
Giacomo


Il suo principale svago era la caccia nelle paludi e nei boschi Toscana, allora popolati da tanta selvaggina.
C’è chi mette in dubbio che sia stato un buon cacciatore, ma io credo che Puccini fosse un cacciatore vero, non un “colpitore” e basta. Un cacciatore “normale” che qualche volta faceva delle “padelle” e questo gli seccava non poco.
La sua inesauribile passione lo portava ad affrontare anche situazioni grottesche e pericolose.

Una volta il “Sor Giacomo”, insieme al suo abituale compagno di caccia, Giovanni Manfredi detto "Lappore" per via delle ciglia bianche, uscirono in barca, nel lago di Massaciuccoli, per una battuta notturna. Al buio furono scambiati per cacciatori di frodo dai guardacaccia del marchese Ginori che non ci pensarono un momento a sparare; per poco non vennero colpiti. Un’altra volta i due compari, visti in lontananza degli uccelli messi, si spinsero fino alla sponda opposta a Torre del Lago. Furono arrestati e processati con tre capi d’imputazione: caccia in stagione proibita, sconfinamento, mancanza del porto d’armi. Il fatto fece molto rumore e lo venne a sapere anche Ricordi, a Milano, che già da tempo andava predicando al suo “tiratore scelto” di non permettere che la passione per gli uccelli lo distogliesse dalla musica: «perciò l’occhio al mirino, ma la testa alla Bohème».

Il 21 settembre 1894 Ricordi scrisse a Puccini:
«Ho udito delle sue prodezze cinegetiche! Bravo, per Bacco! ma credo questa volta finirà in prigione. Tanto meglio, si faccia portare un pianoforte, e così invece di belve feroci, menerà schioppettate melodiche!».
Per la cronaca furono assolti.

Clicca per ingrandire la foto La caccia è costosa e, senza disponibilità economica, si ricorre a tutti i mezzi possibili per poterla praticare. Primo fra tutti è l’invito in riserva. Anche per Puccini fu così, almeno fino a quando non diventò ricco e famoso, cioè dopo il grande successo che ottenne con la sua terza opera: Manon Lescaut (Torino 1° febbraio 1893). Diciamo quindi che per tutto il 1894/’95 andava a caccia dove poteva, ma soprattutto nel lago di Massaciuccoli che era gestito dal marchese Ginori-Lisci.
Il Maestro, comunque, non era soltanto un cacciatore di acquatici. Andava a caccia anche con un cane da ferma, un setter inglese, la Lea che amava moltissimo e quando morì scrisse ad una nipote:
«...mi morì la cagna prediletta, la Lea e per poco non piansi».

Cacciava di tutto. Da buon toscano non disdegnava nemmeno “gli uccelletti”, poi la lepre, le beccacce e il cinghiale. Notizie raccolte personalmente testimoniano che si recava spesso nella tenuta degli Orlando
«Noi lo invitavamo a caccia nella macchia e lui ci dava i permessi per il lago. Da noi veniva per la lepre e quando c’erano le beccacce».

Ma torniamo ai primi anni, quando era arrivato da poco a Torre del Lago, il suo “buen retiro”, e di cui sentiva sempre una grande nostalgia ogni volta che per lavoro era costretto ad allontanarsi. Costretto a restare a Milano per lunghi periodi, scriveva agli amici e ai parenti per avere notizie sulla situazione venatoria:
«Buone feste a Lei, a tutti i torrelaghesi...alle folaghe, ai mestoloni...un mi fa’ pensare...»,
«...preparati per le paglie...Porta tante cartucce n. 3 e 4. Passa da Landi dove ho ordinato 100 cartucce per me»,
«...Come va la caccia? fra qualche giorno andrò in una bandita di qui ma alle beccacce»,
«...oggi ho telegrafato a Ginori e spero risposta favorevole per domenica...Tu intanto prepara cartucce anche per me....»,
«...Giorno 15 caccia...nella tenuta del Marchese Ginori...solo per esso il sotto-scrivente porterà 100 cartucce di polvere Walsrode...»,
«...dammi notizie del mio caro Torre del Lago. Dimmi se c’è caccia, chi ammazza di più, se il marchese Ginori ha fatto mai l’apertura...»
.

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Mi raccontò Giulia Manfredi che Puccini, arrivato da pochi anni a Torre del Lago, frequentava la loro modesta abitazione.
«La sera veniva sempre per sentire le notizie del lago se si era sparato o no; gli altri volevano parlare di musica, ma a lui interessavano altre notizie. Portava a casa tante folaghe 70, 80 e le regalava a tutti...».

Poi arrivarono gli anni del benessere. Lo dice Puccini stesso «Manon continua a trionfare da per tutto e, se Dio vuole, vengono i denari!».
Le sue opere lo proiettano ormai verso la leggenda. A Manon segue La Bohème. Con Tosca si entra nel XX secolo. Compone poi Madama Butterfly, La Fanciulla del West, La Rondine e siamo nella prima guerra mondiale, quindi Il Trittico e l’incompiuta Turandot.

Ancora dai racconti del m° Salvatore Orlando, proprietario della villa accanto a quella del Maestro.
«Puccini era il vero dittatore del lago con i suoi quattro motoscafi. Era un uomo di una simpatia straordinaria. Del lavoro ne parlava poco. Una sera eravamo alla villa e Puccini, ritornando da una battuta entrò in casa tutto vestito da caccia e disse: “Cinquanta folaghe”.
Andava a caccia quasi tutti i giorni al pomeriggio, perché lavorava la notte. Subito dopo mangiato attraversava il lago con la barca a motore che lasciava alla villa Ginori-Lisci. Di lì con il barchino, andava lungo i canali del padule; poi tornava alla villa del Conte a prendere il tè e rientrava la sera. Una volta cascò dalla barca, tutto vestito con il fucile, nel lago e noi di qui, con la signora Elvira e la signora Fosca, seguimmo la scena con il binocolo; poi arrivò Nicche a prendere i vestiti. Ritornava da caccia, tocchicchiava un po’ il pianoforte, poi girava la poltrona e prendeva qualche appunto, sempre con un piccolo lapis; poi chiedeva di fare una briscola o uno scopone. Assorbiva moltissimo quest’ambiente. Era estasiato dal canto degli uccelli»
.

La viscerale passione del Maestro per la caccia faceva di lui, come succede per tanti cacciatori, un profondo conoscitore e amante delle sue prede. Anche nelle sue opere si sente un Puccini ornitologo e ornitofono, se mi si passa il termine, attento alle emissioni canore dei pennuti che spiava come un gattone nascosto fra le canne.

Un’ampia parentesi venatoria, di circa un quarto di secolo, si svolse in Maremma, “la terra degli Etruschi e dei briganti”, dove Puccini arrivò, in treno, nella settimana che precedeva il Natale del 1896.
Immagino Puccini che, poco dopo Alberese esce dallo scompartimento preparandosi all’arrivo. Dai finestrini del corridoio osserva la pianura maremmana, gli specchi di palude e le mandrie di bestiame allo stato brado. A Fonteblanda gli appare lo scenario marino della Costa d’Argento, l’imponente rocca di Talamone e le case di Porto Santo Stefano. Superato il colle di Talamonaccio, alle Saline, si spalanca, quasi all’improvviso, la laguna orbetellana di ponente: un immenso specchio d’acqua punteggiato di uccelli; alcuni immobili tanto da sembrare finti, altri che si spostano svolazzando pigri da un posto all’altro. Scese dal treno a Orbetello nelle prime ore del pomeriggio. In stazione lo aspettavano Malenchini e Collacchioni per condurlo a Capalbio.
Era stato invitato da Maria De Piccolellis Collacchioni che organizzava e animava numerosi convegni venatori. Donna Maria, sempre disposta ad allargare la cerchia di importanti amicizie, pensò bene di invitare l’allora trentottenne maestro Puccini già famoso per Le Villi, Edgar, Manon Lescaut e La bohème che era andata in scena il 1° febbraio di quell’anno, a Torino, diretta da Arturo Toscanini.

La mania venatoria del Maestro era giunta alla nobildonna da Giuseppe Malenchini e Giovacchino Mazzini, ospiti fissi a Capalbio, che frequentavano anche la riserva di Migliarino, denominata per antonomasia la banditissima, insieme a Puccini.
I Collacchioni abitavano nel castello in cima al paese. Quel giorno la casa era piena di ospiti, tutti cacciatori, perché la mattina c’era stata una grande battuta al cinghiale e l’indomani ce ne sarebbe stata un’altra ancora più importante per l’imponente dispiegamento di uomini, cani, cavalli e cibi vari. Un’organizzazione capillare per una grandiosa battuta di caccia. Sveglia all’alba.
Al centro della serata c’era Puccini che, dietro le insistenze del Malenchini, raccontò le alterne vicende di Bohème, la sua creatura più recente. Ne parlò in modo semplice, attenendosi ai fatti senza enfatizzarli, e questo piacque ai numerosi ospiti; così come piacque un elegantissimo gilè di cuoio che il maestro sfoggiava per l’occasione. Le ore passavano veloci e, in previsione della battuta del giorno dopo, che imponeva riposo e riflessi pronti, donna Maria invitò tutti a ritirarsi nelle rispettive stanze.
Com’era consuetudine in occasione delle grandi battute, alle prime luci dell’alba il canaio attraversò il paese per avvertire tutti i capalbiesi in quanto, per un diritto secolare, l’intera popolazione poteva partecipare alla caccia. Verso le otto, chi a piedi, chi a dorso d’asino, con diverse decine di cani, mossero verso “il rialto”, il luogo del raduno. I Collacchioni, con i loro ospiti, lasciarono il castello a cavallo.

Clicca per ingrandire la foto Interessante la descrizione dell’abbigliamento, tipico di chi cacciava nella maremma toscana e laziale: cosciali di pelle caprina, ghette di cuoio o stivali, pelliccia alla maremmana. Puccini queste cose le sognava da sempre.
Nel punto del ritrovo avevano acceso un falò e attorno si erano radunate circa duecento persone con una sessantina di cani: pointer, mastini, segugi.

Il capocaccia Memmo Mazzerelli, consultati gli uomini più esperti, localizzò la posizione delle lestre (i covi dei cinghiali), i limiti del territorio di caccia e, soprattutto, la direzione del vento. Poi, dopo aver assegnato a ciascun cacciatore la posta, diede inizio alla battuta. Le poste erano assegnate secondo le capacità di ogni partecipante in modo che i più abili, dislocati accanto agli ospiti di riguardo, fossero sistemati nelle posizioni migliori dove, con tutta probabilità, gli animali sarebbero passati a tiro. Giacomo Puccini fu sistemato vicino al quasi suo omonimo, l’avvocato Mario Puccioni. Non si conoscevano, ma dal fatto che il capocaccia gli avesse assegnato quella posta, Puccini dedusse che si dovesse trattare di un tiratore scelto. Finalmente suona il corno e si scatena il finimondo. Bepparino sparava pistolettate da tutte le parti. Memmo correva nella boscaglia per cercare le tracce dei cinghiali. Gli altri canai aizzavano le mute con urla, fischi e revolverate. Per aumentare il rumore percuotevano ritmicamente, con dei bastoni, bombole di petrolio e altri recipienti metallici. L’eccitazione era al massimo: i cinghiali schizzavano via dalle lestre per nascondersi nei forteti. Un cinghiale di notevoli dimensioni uscì improvvisamente davanti all’avvocato Puccioni che sparò.

L’animale crolla, ma si rialza immediatamente e corre verso la posta di Puccini. Il cinghiale era stato sicuramente ferito e le tracce di sangue sul terreno non lasciavano dubbi, ma il colpo mortale partì dal fucile del Maestro che non fece mistero della sua soddisfazione per aver colpito nel segno. E qui nacque un incidente “diplomatico” brillantemente risolto.
Secondo le regole venatorie, è “la prima ferita di palla che abbia fatto un foro netto quella che attribuisce l’onore di aver ucciso un capo di selvaggina durante le battute di caccia grossa”. E così il capocaccia attribuì a Mario Puccioni la testa, la coda e le interiora del cinghiale abbattuto, come prescrive la “normativa cinegetica”.
La decisione provocò un certo imbarazzo e prima che si chiudesse la battuta, Marco Collacchioni pregò Puccioni di rinunciare ai suoi diritti in favore del Maestro. Il giovane avvocato non ebbe esitazione, ma Puccini, quando si vide offrire i trofei dell’animale, fu incerto se accettarli o no. Puccioni allora, da vero gentleman, ammise che la ferita provocata dal suo fucile, aveva prodotto una semplice scalfittura e che quindi il colpo mortale lo aveva sparato lui, il Maestro.

Di questo episodio riporto le parole dell’avv. Puccioni tratte da un suo libro, del 1932, “Cacce e cacciatori di Toscana”:
« Nella mattinata in cui il Maestro fece la sua prima comparsa, io, che pur ero stato cinque lunghi anni senza poter tirare al cignale [...] ero stato fortunatissimo: alla prima braccata avevo ucciso un porcastro, alla seconda un capriolo. Fatta colazione, per quanto relegato a una delle peggiori poste, mi capitò un bel cignale - la caccia è come il giuoco - tirai e mi accorsi d’averlo ferito dalle tracce di sangue, ma l’animale continuò, sbucando avanti a Puccini che l’uccise, fiero del suo ben diretto colpo. Però il capocaccia Memmo, attaccato alle regole, constatò essere già stato colpito e individuò in me il feritore.
Rammento che avanti fosse suonata la radunata capitò alla mia posta Marco, e mi domandò se sarei stato disposto a rinunziare ai miei diritti in favore dell’ospite illustre: facile mi fu il dir di sì. Puccini però, che dagli altri cacciatori era stato avvertito, era incerto se accettare o no il cignale; allora io con tutta l’eloquenza d’un avvocato gli mostrai che spettava proprio a lui, che l’aveva ucciso, essendo la mia ferita di prognosi fausta. Da ciò la simpatia cambiatasi poi in amicizia»
.

Al termine della caccia, in una zona soleggiata e protetta dal vento, fu allestito un pranzo colossale da consumare sulle pellicce stese attorno a un fuoco. Il catering, come diremmo oggi, era affidato alle cucine del castello dei Collacchioni che inviarono “un garzone con un asino carico di provviste. Da grandi cestoni, insieme con posate e piatti in quantità prodigiosa, venne fuori ogni ben di Dio”. Il menu, molto ricco, prevedeva come antipasto degli spiedini, cotti sulle braci, di “ventresca, salsicce e mazzafegati” seguiti da “brodo caldo, carne fredda, affettato, prosciutto, uova sode, bruschetta, soppressata di cinghiale, bistecche; e perfino pasticcini e caffè. Per placare l’arsura dovuta alle fatiche venatorie e ai cibi piccanti c’era tanto vino: un vinello bianco della tenuta di Castelnuovo in Val Tiberina che, con quei mangiari ardenti, scivolava in gola come fresca acqua di fonte”. Questa fu la prima giornata maremmana del Maestro.

Puccini scriverà, nel dicembre 1899, a don Pietro Panichelli alla vigilia della prima di Tosca:
«Io, dopo le sacramentali tre recite (se non mi fischiano alla prima) mi rendo latitante nei boschi che furono asilo sicuro per tanto tempo a Tiburzi [famoso brigante maremmano, ndr.] e compagni. Là, alle beccacce, sfogherò l’ira venatoria e mi rifarò dei patemi provati in trenta o trentacinque giorni di prove. Lì, nel verde, nell’agreste, nel selvaggio della tanto splendida maremma, ospite di simpatiche persone, passerò credo i più bei giorni della mia esistenza...».

In una lettera inviata da Torino nel febbraio del 1900 all’amico Giovacchino Mazzini leggiamo:
«Caro Mazzini, sento delle ecatombe cinghialesche... Noi andremo in scena martedì [si riferisce a Tosca, ndr]. Tutto promette bene, vedremo. A Roma hanno incassato complessivamente lire 160.000...Oh quanto v’invidio o fannulloni! e pensare che per me durerà ancora questa storia di girovagare! Ho Milano subito, e poi un brevissimo respiro, indi un’infinità di città e cittaduzze vogliono questo clistere della Tosca, compreso Firenze in Maggio. E Londra subito dopo. Fui a Torre pochi giorni,... In tre ore uccisi tre beccacce e poi fui da Ginori dove non trovai che quattro folaghe, un beccaccino, una tinca e un bertibello (arnese da pesca)... Ripensando al lago-laghetto [così chiamava il lago di Burano, ndr], dì a Marco che si decida a mettere delle botti e far venire dei barchini. E’ un vero peccato trascurare quel paradiso terrestre...».

Clicca per ingrandire la foto Certamente non dimenticava le imprese di due anni prima, il 1898, annata propizia per i cacciatori di folaghe, quando nel lago di Burano furono abbattuti 3278 capi.
La caccia alle folaghe si faceva col sistema della tela e Giacomo Puccini fu tra i migliori. Raccontano che un giorno il Maestro e l’avvocato Puccioni si trovassero vicini di barchino. Il lago di Burano “nericava” di folaghe, riunite in grandissimi branchi. Riporto ancora, per questa memorabile battuta, il racconto Mario Puccioni:
«Anche alla tela alle folaghe in Burano, costituente la grande aspettativa della stagione, fui accosto di barchino al Maestro. Non meno di dodici barchini occorrono per affrontare in linea di fronte il nemico popolante il lago, nero per le folaghe...Ciascuno prende il suo posto a prua del barchino, sedendo comodamente sulla pelliccia, con avanti a sé per lo meno due fucili e tre centinaia di cartucce, insieme all’indispensabile bacchettone per ripulirli ogni tanto. Dal porto, pei canneti procedendo in fila indiana, ci si avvicina al largo, verso Selva Nera, ove tra lo scuro delle folaghe, costituenti il contingente principale, si distinguono benissimo gli altri palmipedi: i germani, i barazzuoli, i fischioni, abitatori delle acque.
Quando nell’equidistanza di tutti i barchini è formata la linea, incomincia l’azione: questi con moto uniforme si avanzano rendendo sempre minore lo spazio; ma appena s’inizia l’avanzata si levano a migliaia i caporossi, che, altissimi, si distinguono al sole per il loro petto argentato, i fischioni, i codoni, i germani reali, che traversano a piccoli branchi il lago, ultime a levarsi le folaghe contro le quali incomincia da prima qualche colpo staccato, poi, quando la linea si stringe, la fucileria fitta e micidiale, mentre esse, a centinaia, croci nere nel sereno cielo, son costrette a passare in linea obliqua sopra i barchini e cadono morte o ferite nell’acqua. Quando il nuvolo di esse ha sorpassato la linea di tiro si raccolgono i morti e si dà il colpo di grazia ai feriti, onde, tuffandosi, non sfuggano al sicuro tra le paglie. L’attacco vien ripetuto più volte fino alla stretta di Macchia Tonda e le vittime si contano a migliaia»
.

E così Puccini, in particolare stato di grazia, si distinse in un’impresa venatoria memorabile. Il Maestro ricordava spesso i compagni di caccia
«...t’incarico di scrivere un proclama dove sia tramandata al mondo la mia simpatia per i nobili castellani capalbiesi e l’entusiasmo per i luoghi tanto aprichi e ospitali...».
Da vero sportivo non dimenticava anche le sue “vergogne” venatorie, come quella collezionata alle Gessaie di Capalbio dove padellò una dozzina e passa di animali tra cui «quattro cinghiali, tre caprioli, quattro martore, due volpi, restando senza cartucce».

I ricordi rimasero fissati in alcune lettere imbevute di buonumore e di frasi scherzose, vedi la lunga lettera del febbraio del 1898 a Giovacchino Mazzini.
«Sbafone carissimo,...sappimi dire qualche cosa di Scarpia [un cane da penna che intendeva acquistare, ndr] perché se veramente viene bene non mi provvedo, ma se venisse un lavativo mi provvedo qui, e bisogna che me ne occupi per tempo; dunque cerca di sapere la verità vera dal Lilli e magari, se tu puoi, vacci a provarlo se ha punta sostenuta e se ha naso. Se no ci faccio delle salsicce che regalo al Sor Eugenio [il marchese Ottolini, ndr]. Io sono un martire dell’arte! Lavoro fino alle quattro di notte, non esco quasi mai, e faccio una vita da carcerato. Fino all’aprile tutti i santi giorni a casa, poi andrò a Parigi da Sardou [per discutere con il commediografo il finale di Tosca, ndr] e dopo in campagna, ma lontano da limi e frasche. M’informerò dove non esistono uccelletti. Guai se vedo un merlo nero! Addio Tosca, allora! Ho proibito alle mie donne di portare uccelli imbalsamati sui cappelli e non voglio tentazioni in casa. Neppure i polli a pranzo. Se incontro un tedesco gli grido: allontanati tentatore! Tu sei un germano! Sto preferibilmente in cucina, dove scorgo al muro una quantità enorme di padelle, quale trofeo vergognoso delle Gessaie e la stizza, la rabbia mi ricacciano al tavolo di lavoro».

La simpatia e l’arguzia toscana di Puccini la ritroviamo nella lettera che scrisse a Puccioni in occasione del suo imminente matrimonio; lettera di auguri, ovviamente, ma con sfumature “venatorie”.

Via Solferino 27, Milano
9 marzo ‘98

“Carissimo Mario, Ritornato ieri da Parigi dove si darà nel prossimo Maggio la mia Bohème all’Opera Comique, trovai la carissima tua lettera con la notizia lietissima del tuo prossimo matrimonio. Un consiglio: quando sarai imenizzato pensa a frenar gli ardori poiché l’occhio non abbia ad offuscarsi e il braccio non tremi. Se non seguirai il mio consiglio comincerà anche per te il triste periodo delle padelle!
Tanti auguri di felicità e salutandoti carissimamente mi dico
Tuo aff.mo
G. Puccini


Tratta sempre la libro citato di Mario Puccioni, riporto un altro curioso aneddoto musicale indirettamente legato alla passione venatoria, comune denominatore tra questi incredibili personaggi.
La mancanza, seppure temporanea, della caccia, della palude, di quell’habitat che solo il cacciatore di valle può capire, gli procuravano violente crisi di nostalgia.
Una di queste capitò quando era a Vienna per montare la prima di Bohème in lingua tedesca.
Scrive all’amico Giovacchino Mazzini ricordando i suoi posti e le vie fluviali, come il fosso Malfante che collega il lago di Massaciuccoli al canale di Burlamacca e permette di raggiungere il mare a Viareggio.
«Caro Giovacchino, viceré della banditissima. Dalla città di Francesco invioti un saluto; il quale è un’ispirazione verso il verde Torre, che da lungi più bello appare agli occhi miei. O Malfante adorato, o fosse verdi e fetenti, ripiene di ranocchi melodiosi più della musica del grande di Lipsia [Wagner, ndr] - io vi amo e vi adoro - ormai siete sangue del mio sangue, siete organi necessari al mio essere».

Altre occasioni “venatorie” molto ghiotte erano quelle procurate dal patrizio fiorentino Conte Giuseppe Della Gherardesca, proprietario di una vasta tenuta in maremma, che invitava il Maestro, già famoso, nel Castello di Bolgheri. Nel novembre del 1905 Puccini lo comunica al suo amico prete, Don Pietro Panichelli.
«… Ti scriverò in seguito, ma oggi ho fretta dovendo partire subito per Castagneto Marittimo, cortesemente invitato dai conti Della Gherardesca al loro Castello di Bolgheri per alcune partite di caccia».

Clicca per ingrandire la foto Gli impegni sempre più numerosi non gli lasciavano spazio per la caccia; la cosa lo intristiva e gli provocava profonde depressioni. Nel dicembre del 1913, da Milano, scrive ancora all’amico Mazzini:
«...dopo Natale...andrò a Torre dove mi fermerò in attesa di venire a Capalbio. Qui sto veramente male; dal giorno dell’arrivo a oggi mai sono stato in buona forma. Mi chiamano d’urgenza e frequenza a Trieste per Fanciulla [La Fanciulla del West, ndr], ... Io qui sto male; il clima benché soleggiato di Milano non mi fa bene. Dopo le feste io scappo...».

Il Conte Della Gherardesca lo invita ancora in maremma a caccia. Il 2 febbraio 1915 scrive, da Milano, alla nipote Albina Franceschini
«… A giorni me n’andrò per qualche giorno a Torre e poi da Gherardesca. Ho bisogno d’aria…».

Nell’autunno del 1915 in una lettera al librettista di Rondine, Tabarro e Turandot, Giuseppe Adami, ricorda quelle avventure venatorie:
«...nella strana ed affascinante Maremma. Paese selvaggio, primitivo, lontano lontano dal mondo, dove si riposa veramente lo spirito e si rinforza il corpo...Mi sono divertito tanto a caccia di beccacce e per quei boschi briganteschi».

Ma l’incipiente senilità, aveva superato la sessantina, accentuava il ritmo dei suoi sbalzi di umore. Il suo entusiasmo venatorio, comunque, restò sempre inalterato, sempre “giovanile” come si legge in queste lettere:
«...Smanioso di ritornare a casa per poi andare nelle paludi Pontine a caccia di beccacce con due amici di qui, ho fatto fare un auto speciale per la caccia …».

«...A Budapest metà nov. Trittico. Mi vogliono, ma io non posso. Sarò nelle paludi Pontine a caccia; ho fatto la spesa d’un’auto (32.000 lire) per questo e ho fissato tutto con due amici (i Magrini di qui) per una permanenza di un mese e più, dal 15 nov. al 15 e forse più dic....».

«...A Bpest non posso per quell’epoca. Sarò nelle paludi pontine; e siccome son vecchio [64 anni, ndr] e si vive una volta sola, ho preparato un’auto ad hoc (32.000 lire); non mi privo di questo sollazzo...»
.

A proposito di quest’automobile speciale non ci sono notizie precise. Simonetta Puccini, descrivendo le automobili del Nonno, parla di “una vettura-ambulanza, già appartenuta agli Americani” che il Maestro acquistò “per i frequenti viaggi da Torre del Lago” alla Torre della Tagliata in Maremma. Si può pensare, forse, ad un camper ante litteram.

La caccia, la natura, Torre del Lago e la Maremma gli restarono sempre nel cuore.
Da Milano il 2 gennaio 1923 scrive:
«Non vedo l’ora d’essere fra le mortelle maremmane. Si va poi? Ci sono beccacce?».

Drammatica l’ultima testimonianza raccolta a Bruxelles da un suo intimo amico, Angelo Magrini, pochi attimi prima della morte del Maestro:
«Non può parlare, ma tuttavia si sforza e qualche volta gli viene fuori dal cannello qualche parola come un soffio. Oggi sono tornato e mi sono trattenuto con lui tutto il pomeriggio. Ripeto, non parla, ma ha trovato il modo di domandarmi con cenni se era bella la Maremma e se c’era caccia».

Sabato 29 novembre 1924, a Bruxelles, moriva un cacciatore passato alla storia non per questa sua viscerale passione, ma per il suo genio musicale.


FUCILI DI PUCCINI

1. FUCILE ad avancarica (bastone) con questa targa “A G.P. offre l’amico Cleofonte Campanini in occasione della sua serata d’onore al Teatro Goldoni di Livorno” 13/3/1900.
2. Flobert
3. G. Brille – Bruxelles
4. L. Guidotti – Lucca
5. ITACA GUN Co. - New York
6. Jos. Dupont – Milano
7. Fieli – London
8. Acier Cockerill – Liegi
9. Tjpe – Manon Lescaut
10. S.T.A.H.L. a tre canne: due cal. 12 più una carabina
11. Spingarda a due canne. Fu fatta costruire in Belgio perché in Italia non la facevano come voleva Puccini.


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