I racconti dei cacciatori di acquatici
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Il Guzzon di Paolo Ferazzoli
Alle prime ore di un uggioso pomeriggio del 18 marzo del 1957 mia madre ebbe le doglie. In quel periodo non c'erano cellulari, computer, tablet o altre vie di comunicazione come quelle di cui disponiamo oggi. Non c'era nemmeno la linea telefonica tanto e' vero che per fare una telefonata ad un parente si doveva andare ad Albinia dove c'era la gabina della "TETI".

Ad occuparsi di andare ad avvisare mio padre, ancora in ufficio a Grosseto, fu mio zio Bruno. Imbottitosi di giornali sul petto sotto la camicia, in modo che lo proteggessero dal vento freddo di marzo, ovviamente non aveva il parabrezza sulla Vespa, parti a razzo per andargli a telefonare.
"Corri Antonio che Lisina (Elisa) ha finito il tempo". Da Grosseto a Patanella ci voleva con l'auto una mezzoretta e tanto impiego' mio padre con la sua Fiat 600.
Mia madre, sempre calma in qualsiasi circostanza, aspettava, con la valigetta pronta con tutto il necessario seduta su una comoda sedia che mio nonno gli aveva preparato in fondo alle scale.
Mio padre che gia' parlava poco di suo non saluto', prese mia madre sotto braccio, l'aiuto' a sedersi in macchina e si diressero alla volta dell'ospedale di Orbetello dove, poco dopo, vennero raggiunti dai miei zii, zio Fernando e Rina sorella di mamma. Dopo le visite di routine mio padre venne tranquillizzato dal Dott Filippini, suo carissimo amico che era di turno: "Sicuramente se ne parla domani" disse.

L'indomani sarebbe stato il giorno di San Giuseppe, allora era considerato festivo ed era, per gli amanti della palude, uno dei giorni piu' attesi per dedicarsi all'arrivo delle marzaiole.
Zia Rina era una donna di una dolcezza unica ma quando, a ragione, si impuntava e si posizionava con le braccia posate sui fianchi a mo di brocca romana, nessuno insisteva. Anche in quell'occasione dette dimostrazione della sua caparbieta' e non ci fu verso di riportarla a casa, volle rimanere con mia madre.
Il Filippini conosceva il suo carattere e anticipo' la mossa, sicuramente ad evitare di prendere qualche energico rimbrotto, autorizzandola a restare. Gli uomini, rientrati a casa, si organizzarono alla meglio per la cena. Un piatto di pasta, due salsicce, un po' di insalata e dopo, per ingannare il tempo, tra un bicchiere di ottimo rosso della precedente vendemmia e un altro, un paio di raggi a briscola e tresette. Bevvero piu' vino giocando a carte che mangiando. A mio padre piaceva giocare a carte, ma non in coppia con zio Fernando perché era piu' attento alle stupidaggini che diceva che alle carte da giocare.
Alla terza sconfitta secca della bella a briscola taglio' corto e disse: "Vado a letto che domani a buio voglio andare in botte per vedere se sono entrate le marzaiole" e saluto'.

Fino agli anni sessanta del secolo scorso la laguna di Orbetello era un'area aperta alla caccia fino al 31 marzo. Le prime misure di protezione risalgono al 1971, anno in cui l'allora Ministero della Agricoltura e Foreste, istitui' un'oasi di circa 800 ettari. Nel 1977 l'area fu dichiarata Zona umida di importanza internazionale ai sensi della convenzione di Ramsar e, nel 1998, fu istituita la attuale Riserva Naturale Statale Laguna di Orbetello, contigua alla quale e' la Riserva Naturale Statale Laguna di Orbetello di Ponente, gestita dal WWF Italia.
L'Oasi di Orbetello protegge circa 300 ettari di laguna salmastra con tanta vegetazione palustre; la laguna e' separata dal mare dal Tombolo della Feniglia a levante e dal Tombolo della Giannella a ponente.
Il Tombolo della Giannella lungo la costa e' ricoperto da macchia mediterranea mentre all'interno si trovano boschetti isolati, scendendo ancora, verso Orbetello si incontrano, dopo il Bosco di Patanella che da rifugio a molte specie di animali caratteristici della macchia mediterranea, le botti usate dai cacciatori di acquatici di quei tempi.

Sicuramente non chiuse occhio con il pensiero rivolto a mia madre e la mattina successiva alle cinque era gia' in botte a sistemare la tesa. Mia madre partori' alle 6 e 30 del mattino e immediatamente ebbe inizio una staffetta di solidarieta' per far si che i parenti venissero avvisati.
Un infermiere che abitava a Fonteblanda, finito il turno di notte, si prese la bega di avvisare la prima persona che avesse incontrato al passaggio a livello sull'Aurelia. A quei tempi ci si conosceva tutti e tutti erano pronti ad aiutarsi l'uno con l'altro.
Il fato volle che incontro' il Guzzon, amico di mio padre e grande cacciatore di acquatici. "Hai modo di avvisare Antonio che la su moglie ha partorito un gran bel bimbo"?
Il Guzzon lavorava a giornata dove capitava e quando veniva chiamato, specialmente in giorno festivo, era come se gli dessero una fucilata alle spalle, pero' andava.
A quella notizia apparve sul suo volto un sorriso che era tutto un programma, aveva una scusa piu' che buona per non andare al lavoro. Non ci penso' su due volte, annui' con il capo e senza dire niente inforco' la bicicletta, abbasso' la visiera di un cappellino di telina verde con su la pubblicita' di una ditta edi'le e, invertito il senso di marcia, alzandosi sui pedali come un corridore professionista ma con gli stivali, spari' dall'Aurelia per prendere la strada bianca di Patanella. Una strada di buche e sassi che collegava i vari poderi.
Quello di mio nonno era l'ultimo e dopo un centinaio di metri la strada sfociava nel terreno sabbioso sottostante la pineta della Laguna.
Giunto alla fine della strada si alzo' in posizione eretta sui pedali, scavalco' la bicicletta con una delle due gambe facendola passare sopra al sellino e continuo' la corsa poggiato solo su un pedale. Dopo una decina di metri, sfruttando come freno la sabbia, si fermo' e con calma apparente appoggio' il velocipide a un pino, prosegui' la corsa a piedi verso le bocchette.

Anche se il sole era gia' sorto si stentava a vedere perche' la laguna si confondeva con i nuvoloni grigi spinti da un fastidioso vento di Libeccio.
In lontananza mio padre vide la sagoma del Guzzon che si avvicinava ma lo riconobbe solo dalla voce per come urlava il suo nome. Quando gli fu vicino si piego' appoggiando le mani sul bordo della botte perché stremato, le parole gli si strozzavano in gola, non riusciva a dargli la lieta notizia.
Finalmente rialzandosi con il volto stravolto riusci' solo a dire: "Maschio, grosso". Era vero, pesavo cinque chili e cento grammi e anche il quotidiano LA NAZIONE si interesso' al mio caso.

Appena nato e gia' in cronaca. A quel punto mio padre fece per raccogliere tutto l'armamentario ma Fortunato, questo il nome di battesimo del Guzzon, che nel frattempo si era ripreso, gli disse: "Anto', lascia tutto qui, ci penso io. Magari lasciami anche la doppietta e le cartucce che sono la parte piu' ingombrante e pesante, cosi' fai prima".
A mio padre venne da ridere perché aveva capito gia' che il Guzzon sarebbe rimasto in botte al posto suo e, mentre si incamminava in direzione del podere, si rivolse a lui, che fingeva di mettere a posto, dicendogli: "Fortunato, poi fammi sapere perché c'e' movimento". Sapeva della sua inesauribile passione per la caccia che lo portava spesso a trovarsi anche in situazioni grottesche e pericolose. Mia madre fu dimessa nel primo pomeriggio. Al seguito dell'auto di mio padre c'erano anche la macchina di zio Fernando, che accompagnava mio nonno e zia Rina e zio Bruno, sempre imbottito di giornali, con la Vespa.
Arrivati finalmente a casa tutti dettero precedenza a mio padre e mia madre per salire le scale del podere e grande fu la sorpresa nel vedere un mucchio di marzaiole legate alla maniglia della porta d'ingresso con un biglietto su cui era scritto con "Tanti auguri, il fucile e il resto te lo porto stasera a veglia".
Negli anni 50 ancora per molti era dura tirare a campare e questo gesto era stato, per Fortunato Guzzon, il modo di ringraziare.



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