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Il mio Padule di Paolo Ferazzoli
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Sono nato in un paesino della maremma grossetana, Orbetello, in un podere dell'Ente Maremma che dista solo un centinaio di metri dalla laguna.
Un podere con tredici ettari di terreno sabbioso dove solo mio nonno, fra tanti assegnatari, riusci' a tirarci fuori l'unica cosa che vi si poteva tirar fuori,
un vigna. Una vigna da cui ricavava un vino che le famiglie benestanti di allora, per non rimanere senza, prenotavano l'anno prima per l'anno seguente.
Mio padre, grande amante della caccia, era impiegato alla prefettura di Grosseto e di tempo per dedicarsi al "padule" ne aveva ben poco. Quando cio' si verificava
io ero pronto.
Indossavo solitamente un paio di stivali di tre o quattro numeri piu' grandi, la giubba di fustagno marrone di mio zio e, obbligato da mia madre, dei calzoncini
corti di qualche taglia piu' larghi di un colore che poteva includere tutti quelli di macchie varie che io ero in grado di farvi entrare. Non vorrei sembrare
presuntuoso ma credo che gli americani per la guerra del golfo abbiano preso spunto, per fare le loro tute mimetiche, proprio da quei miei calzoncini! Scherzi
a parte, quando mi permetteva di andare con lui non mi sembrava vero. Ero sempre attento alle sue lezioni di ornitologia, distingueva qualsiasi uccello acquatico
dal fischio se fischiava, o dal volo se in volo. Richiamava a bocca fischioni, germani, pivieri e beccaccini.
Quando la domenica mattina andavamo ad Albinia per la messa, punto di ritrovo degli abitanti della zona e quasi tutti cacciatori, era per me motivo di orgoglio
camminare al suo fianco e sentire i giovani, che da poco avevano preso la licenza, accreditarlo come tra i migliori.
Lui passava indifferente tra la gente, gli rimaneva cosi' facile riuscire in quella che, in questo caso, si puo' chiamare arte venatoria che mai lo avevo sentito
vantarsi.
Alto, robusto e diplomato ragioniere, a quei tempi non tutti potevano, all'apparenza incuteva timore quindi, spesso, per potersi fare una chiacchierata
doveva essere sempre il primo, con una scusa banale, a chiedere qualcosa. Solitamente lo faceva rivolgendosi a colui che considerava il piu' valido tra
i giovani, un ragazzo che per la sua balbuzie gli amici avevano soprannominato "Pipetta".
Era cosi' abile a fare in modo che Pipetta si sentisse talmente importante da farlo saltare sopra le panche per poterglisi mettere vicino. Sembrava che
gli avessero fatto ingerire un abbecedario sano per le tante parole che in pochi minuti sciorinava. Gli raccontava di tutto, di quello che il "Padella"
aveva fatto dentro la riserva del principe, del cinghiale che il "Veneto" aveva mandato via con tre fucilate e di tante altre vicende di caccia di cui
mio padre era gia' a conoscenza. Io ero li e non mi perdevo neanche una battuta, perche' l'entusiasmo con cui i fatti venivano raccontati era tale che gli
occhi di quei ragazzi di allora si illuminavano.
Quando gli stivali cominciarono a calzarmi precisi, non avevo piu' di undici anni, i miei calzoncini "mimetici" cominciavano a stringermi, ero in grado,
dietro insegnamento di mio padre, di saper tirare discretamente.
Nei pomeriggi di quelle giornate di fine settembre, quando il sole rendeva quelle terre sempre piu' simili ad un deserto e solo il canto delle cicale si
alzava sempre piu' invadente, aspettavo che tutti si mettessero sul letto per il riposino pomeridiano, scendevo silenzioso le scale ed entravo nel magazzino
dove in una parete era appeso un vecchio monocanna calibro sedici, lo prendevo e con una saccocciata di cartucce caricate in casa mi avviavo, nascondendomi
tra i filari della vigna in direzione della laguna. Tra il vigneto e la laguna c'era e c'e' tuttora una fascia di pineta larga una cinquantina di metri.
Piano piano mi avvicinavo al bagnasciuga e con il cuore in gola mi affacciavo.
Spettacoli di quel genere adesso che e' in mano al W.W.F. non si vedono piu'. Volava di tutto, gambette (piro piro, piovanelli), gambettoni (totani, pettegole),
cavalieri d'Italia, Folaghe, germani, alzavole e fischioni.
Quante volte sono tornato triste ed umiliato per non aver potuto sparare tanta era la confusione che si creava in quel momento.
Alcune volte cercavo di incannare qualche germano ritardatario. Altre riuscivo a tirare la' una fucilata ma sempre con lo stesso risultato: niente.
Il particolare che mi lasciava sorpreso era che ogni volta che ritornavo trovavo mio padre sveglio a leggere sotto la pergola, tranquillo come se non si fosse
accorto di nulla, ne' che ero rientrato nel magazzino a riporre il fucile, ne' che avevo gli stivali e tantomeno della fucilata che avevo tirato.
Un giorno, in un'altra delle mie furtive sortite, passando per un sentiero che avevo trovato per sbaglio, riuscii ad arrivare sull'argine senza che niente
volasse. Gli animali non avvertirono la mia presenza e, per la prima volta, da dietro le cannucce, potei assistere ad uno spettacolo da fare invidia.
Il cuore inizio' a battermi velocemente e nel silenzio di quei pomeriggi rimbombava dentro di me come un trattore, non riuscivo a calmarmi tanta l'emozione.
Cercai tra tutto quel ben di Dio e, ad una venticinquina di metri, vidi un branco di otto germani, aspettai che si avvicinassero tra di loro e sparai.
Uno scrosciare di ali, un insieme di versi e dopo qualche attimo il silenzio piu' totale. Quattro germani, tre maschi ed una femmina rimasero. Non stavo nella
pelle, pensavo fosse un sogno, mi riporto' alla realta' uno schiaffo sulla testa ed una voce, quella di mio padre, che mi disse: "Hai visto capoccione come
si fa!". Mi aveva seguito anche quella volta.
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