I racconti dei cacciatori di acquatici
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Il riflesso dell'acquitrino di Luigi Fiorenzo
La donna agguantò la tenda e tirandola di lato la fece scivolare lungo il bastone di legno a cui era appesa.
Poi spalancò la finestra, lasciando che la stanza si riempisse di vivida luce, oltre che di quell’aria frizzante che un leggero vento di Maestro recava con se quel mattino. Dopodiché senza dir nulla, così com’era entrata si ritirò, chiudendosi con forza la porta alle spalle. Gigi sollevò di colpo la testa dal cuscino e stropicciandosi gli occhi cercò il punto dove sapeva avrebbe trovato la sveglia. Quando questa finalmente fu nitida, si accorse che le lancette del quadrante segnavano un quarto alle otto ricordandogli, come anche la madre con gesti eloquenti aveva fatto pocanzi , che di li a poco il padre, caposquadra dei Vigili del Fuoco, sarebbe rientrato dal turno di notte.

Mancò poco che si rompesse l’osso del collo nel saltar giù dal letto. Si vestì in tutta fretta infilando in malo modo la camicia nei pantaloni che non riuscì ad abbottonare e con le scarpe in mano, scalzo, cercò di guadagnare le scale, sperando di non trovarselo improvvisamente davanti. Gigi aveva da un pò passata la maggiore età e quelli che lo conoscevano sapevano bene che non era certo uno stinco di Santo. A stento, a suo tempo, era riuscito a conseguire la licenza media. E quando, col passar degli anni, gli si diceva che era ora di trovarsi un lavoro, faceva spesso orecchio da mercante. Gli amici che frequentava poi, quelli erano da “raccomandare”. Tutto questo bastava a fargli lasciare il letto di gran carriera prima che il padre rincasasse, cosi’ da evitare la solita paternale, se non di peggio.
Benché fosse nato in una famiglia di cacciatori non aveva mai mostrato, però, alcun interesse per questa. Finché un giorno, stanco delle tante malefatte, il padre decise che al mattino seguente lo avrebbe costretto, suo malgrado, a seguirlo a caccia: “così almeno per una volta starà lontano dai guai”, avrà pensato.

Era ancora notte fonda quando svegliato da uno scricchiolio di passi vide un ombra avvicinarsi al suo letto, ed anche se la luce era spenta, nella penombra riconobbe ugualmente la figura del padre che in abiti da caccia lo fissava dall’alto con aria quasi minacciosa, mentre con la testa gli faceva cenno di alzarsi. Gigi capi’ e con aria frastornata iniziò a vestirsi alla flebile luce di una piccola lampadina votiva che illuminava appena l’immagine sacra di S. Barbara appesa ad una delle pareti della stanzetta. "La colazione la faremo al bar lungo la strada, per il tardi ho portato dei panini, quando avrai fame li troverai nello zaino insieme all’acqua ". Fu quanto si senti dire mentre, ancora assonnato, aiutava a caricare tutto l'occorrente, comprese le stampe di marzaiola, sui sedili posteriori della vecchia FIAT 850.

Poi vi salì, sedendo davanti accanto a lui e fu solo per il senso di soggezione se non si addormentò subito.
Il Bar Marconi, sul lungomare di Salerno, era a quei tempi l'unico aperto anche di notte, ed era diventato, per questo, l'ultimo avamposto per i tanti cacciatori che allora si recavano per quella piana vasta e desolata che, dalla foce del Picentino appena fuori dal centro abitato di Salerno, si estendeva fino alle pendici dei monti del Cilento. Giusto nel mezzo il fiume Sele, che nel solcare la sconfinata piana la divideva anche a metà. Era ancora buio quando calzati gli stivali, carichi di tutto l'occorrente, si inoltrarono su quei terreni dove un piccolo canale sbarrato dalla mano dell’uomo, tracimando, dava vita ad un ampio acquitrino. Uno dei tanti che a quei tempi abbondavano per la piana del Sele, dove le numerose bufale potevano trovare un po’ di refrigerio nei lunghi e afosi mesi estivi. Le frequenti piogge del tardo autunno avrebbero completato l’opera di allagamento, creando così un ambiente ottimo per anatre e ancor più per i trampolieri che nel marzo vi si presentavano numerosi.

Giunti sul posto il padre tirò fuori dal sacco le stampe di marzaiola e le dispose con sapienza dove l’acqua, alta poco più di una spanna , si faceva più a specchio. Dopodiché si avvicinò a Gigi e gli tolse di dosso il vecchio zaino militare e capovolgendolo lo svuotò delle tante stampe di gambetta, che con ordine collocò a poca distanza dalle marzaiole stesse, laddove il continuo pascolare delle bufale e la poca acqua, rendevano il terreno molle e ricco di ghiotta pastura. Infine srotolò un vecchio telo rattoppato in più parti, e con forza ne conficco i legni nella parte più asciutta del terreno, poi dopo averlo mimetizzato alla meglio vi sedettero dietro ed aspettarono.
L’alba era ancora lontana e nel cielo stellato qualche tordo ancora faceva sentire il suo zirlo.
Si udì provenire dalla lontana masseria un insistente abbaiare di cani, forse allertati dal pastore che, aperto l’ovile, si accingeva a condurre il gregge al pascolo. Poi a poco a poco le luci rosee e purpuree dell’aurora iniziarono a delineare le alte vette del massiccio degli Alburni e man mano che avanzavano illuminavano tutto ciò che incontravano sulla loro strada, compresi i cinque uccelli che, come nati dal nulla, sembrava stessero per dirigersi proprio in direzione della stampe.

Gigi fu obbligato a non muoversi. Avevano da poco incoppato le ali e stavano per buttare giù i carrelli, quando una fucilata traditrice nacque ai margini di quei pantani. Allo sparo gli uccelli si diedero su vertiginosamente, come a volersi nascondere nel punto più buio del cielo, poi, scampato il pericolo, con un largo giro si allontanarono prendendo la direzione del mare vicino. Il padre tirò giù due madonne e alcuni santi, quindi non poté fare altro che restare a guardarli finché non scomparvero dietro la cupa pineta. Solo allora allentò le mani dal fucile e tornò a sedersi . Fortuna che, neanche il tempo di smaltire la rabbia, un branchetto di marzaiole, forse anch’esse spaventate dallo sparo, sfiorandogli il capo si posarono tra le stampe.

Per alcuni secondi rimasero del tutto immobili, sospettose e pronte a defilarsi al primo accenno di pericolo; poi, persuase dalla relativa tranquillità , i maschi iniziarono a far sentire il loro caratteristico verso, mentre le femmine, incuranti delle avance a loro dirette, distratte, beccavano qua e la i teneri germogli affioranti dall’acqua. Dopo qualche attimo di esitazione, dovuto alla magia del momento, il vecchio sovrapposto tuonò al loro indirizzo due colpi in rapida successione. Due rimasero stese sull’acqua, circondate da un aureola di penne che la fucilata gli aveva strappato di dosso,un’altra, ferita ad un ala che ne rallentava la fuga, era riuscita ad involarsi, portandosi ai margini di quelle pozze , dove fra i ciuffi d’erba più alti fu recuperata.

Intanto tutt’attorno a quei pantani la fucileria andava facendosi sempre più insistente e nell’evidente schiarire del nuovo giorno si notavano vari stuoli di marzaiole che, senza una precisa meta, facevano la spola tra i pantani e il mare , mentre più in alto, in un cielo appena tinto di arancio e turchino, numerose schiere di codoni, ad angolo ottuso, migravano verso terre lontane. Fu in quel preciso istante che, come un sasso, un uccello calò dall’alto a velocità impressionante, quando, prima di toccare l’acqua, ondeggiò sulle stampe, non si accorse dell’uomo che, preciso, lo fulminò.

Gigi lo raccolse, rimanendo stupito per i colori che l’anatra sfoggiava, ancor di più per il suo becco a forma di cucchiaio. Poi verso le otto, finita la “sfuriata”, la quiete tornò tra quei pantani.
Qualche cacciatore locale, ancora in tempo per il lavoro, intraprese la via del ritorno, altri, al seguito dei loro cani, erano in cerca del beccaccino poc’anzi padellato, qualcun altro, infine, sonnecchiava al tiepido sole di Marzo e ai profumi dell’imminente primavera.
Poi, come dal nulla, a metà mattinata comparve alto nel cielo un enorme branco di Pittime che, volteggiando, cercava un posto tranquillo in cui sostare. I pochi cacciatori ancora presenti, accortosi del branco, smisero di tirare alle allodole, che in quel momento ne stavano facendo le spese, e si acquattarono ai margini di quelle pozze nella speranza di poter tirare qualche colpo agli uccelli, che già davano segno di voler calare. Richiami ammalianti e seducenti gli giunsero da ogni angolo del pantano, ma fu fiato sprecato, perché il branco, dopo svariati giri concentrici, si diresse verso quel gioco che poco prima era stato preparato con cura e meticolosità da chi ora non aspettava altro che la giusta ricompensa.

Pochi attimi, e una miriade di zampe lunghe e scheletriche passarono fuori tiro sulle loro teste. Il padre, fiducioso, attese che si avvicinassero alle stampe, sperando che in quel momento non nascesse un’altra fucilata come quella dell’alba. Quando le Pittime, ancora al limite del tiro, gli diedero il fianco, preso dalla smania e dal ricordo della fucilata “traditrice” dell’alba, si alzò anzitempo e senza mirare sparò nel mucchio, tanto erano numerose. Ai colpi esplosi gli uccelli si disgregarono e nel fuggifuggi generale i vari gruppi presero ognuno una direzione diversa. Caso volle che, quantunque al limite del tiro, dopo svariati metri ,come le foglie che al vento si staccano dai rami, così quattro Pittime ondeggiando si staccarono dal branco che, man mano che si allontanava, tornava a ricompattarsi, accompagnato, di tanto in tanto, da assordanti scariche di colpi, che alcune comitive di “ sparapasseri “ avevano deciso di indirizzare loro senza velleità alcuna.

Fu quello il momento che più rimase impresso nella mente di Gigi che, estasiato, non toglieva gli occhi da quella cortina alata, finché questa non scomparve dietro il lungo filare di alberi che a quell’ora già ombreggiavano le rive del fiume. Il padre guardandolo ammiccò un mezzo sorriso, forse quel mattino capì come cambiare quel figlio scapestrato. Il sole ormai alto nel cielo illuminava la vasta e tranquilla pianura, il tempo dei rumorosi trattori e delle luccicanti serre che l’avrebbero invasa e deturpata era ancora lontano, nella quiete assoluta si udiva in lontananza il canto antico di una contadina intenta nei lavori dei campi, mentre le allodole con il loro gorgheggiare sembrava volessero farle da coro. Giunse, dalla vicina spiaggia, trasportato dal vento per l’azzurro cielo, il verso lamentoso di un Chiurlo, cui fecero seguito i soliti pigolii di pispole e allodole. Una donnola dal manto rossiccio furtiva si fermò poco distante, si eresse sulle zampe posteriori come a sincerarsi che nessuno la seguisse, poi veloce si dileguò.
Quando verso mezzogiorno fu ora di andare la tramontana era sul nascere, portando con se le prime avvisaglie del cambiamento.

La sigaretta, o ciò che ne resta di essa, quasi mi scotta le dita, ma non me ne accorgo nemmeno, perché i ricordi, belli o brutti che siano, non fosse altro che per la certezza di non poterli più rivivere, spesso bruciano molto più di questa o del ceppo che distratto continuo a rigirare nel camino.
Ripenso alla mia prima licenza di caccia e agli anni che ne seguirono, quando, dalla seconda metà di Agosto, preso dalla passione, rincorrevo le numerose tortore per le colline di Giungano e il pianoro della Licinella, poco distante dal mare di Agropoli. Poi con le prime piogge di Ottobre e i primi venti di tramontana il tempo cambiava,ed io con lui. Non ci sarebbero state, in quei giorni, tortore che avrebbero potuto distogliermi dal pensiero di quei pantani, dove pochi anni prima era iniziata la mia avventura venatoria.

E fu così che, avuto notizia delle prime Alzavole e di qualche sporadico Fischione, anche quella volta, come spesso facevo, partii assai presto per quei pantani.
Finalmente avrei rivisto quell’acquitrino a me tanto caro, dove nelle notti serene venivano a specchiarsi le stelle, mentre in quelle buie e burrascose, invece, ci venivano gli uccelli. Quando, ancora a buio, parcheggiai la vecchia Fiat 850 avuta in dono tempo prima, e mi incamminai per l’angusto sentiero, speravo mi portasse in paradiso, e invece mi ritrovai all’inferno.

Durante l’estate il canale era stato bonificato, ed ora disteso su un letto di cemento defluiva direttamente in mare. Le bufale, dimezzate di numero, erano stipate in recinti per metà coperti da enormi capannoni e per l’altra metà invasi da puzzolente fanghiglia . Qualche rudimentale serra, allora già esistente, aveva lasciato il posto a ben più ampie distese di plastica, allontanando, in breve tempo, quei pochi uccelli che, testardi, ancora si ostinavano a sorvolare quei posti. I grossi trattori, infine, con il loro assordante rumore coprirono l’ammaliante e saudente canto delle contadine e di li a poco avrebbero celato anche quello delle pispole e delle allodole. Quella mattina, lasciata la spiaggia, il chiurlo sorvolò alto quei luoghi a lui tanto cari, non li riconobbe e come smarrito continuò a cercare, finché arresosi non riprese la via del mare, per dirigersi col suo triste e malinconico canto, verso nuove e più ospitali terre.

Tutto era cambiato e in tanti se ne rammaricarono, le uniche a non risentirne furono le stelle, che nelle notti serene non trovando più acquitrini dove potersi specchiare ripiegarono nel mare vicino.


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