I racconti dei cacciatori di acquatici
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Caccia in Mare di Luigi Fiorenzo
Le parole sembravano uscirgli di bocca leggere come il fumo della sigaretta che aveva appena acceso. Piume, che il fumo stesso teneva sospeso in aria per non farle cadere invano. E che noi, giovani pivelli, ascoltavamo in religioso silenzio.

Raccontavano di battiti d’ala tra il chiaro e lo scuro, di tramonti infuocati nell’ora in cui il prato appena allagato appariva ai suoi occhi come un immenso campo di papaveri rossi. Di sagome snelle dai colli lunghi e sottili, che protesi in avanti come lance appuntite, sembravano fendere un nemico invisibile.

Narrava, costui, di grandi branchi di anatre ,che ai suoi tempi, nel mese di Marzo, costellavano i tratti di mare antistanti le foci, così copiosi da indurre anche chi di questa caccia non ne era avvezzo, a improvvisati e infruttuosi appostamenti serali lungo tutto il tratto di arenile che dalla foce del Picentino si estendeva oltre quella del Sele.

“Totònn” non aveva nessuno a casa che lo aspettasse, per cui tirava spesso a far tardi la sera, specie in quelle calde e afose dell’Agosto, quando con altri cacciatori amava intrattenersi sui gradini della piccola chiesa del rione e li, pur avendo appeso lo schioppo ormai da tempo, raccontare del suo vagabondare venatorio per la piana del Sele . A sentir lui sembrava quasi che quella fosse una delle poche cose per cui valeva veramente la pena di vivere. Di donne ne aveva avute, ma aveva preferito restar scapolo. “ Nelle notti fredde anche senza una moglie avrò di che scaldarmi” soleva dire, mostrando la solita bottiglia a cui si attaccava quando la solitudine si faceva sentire più forte che mai, quando gli occhi, più lucidi del solito, tradivano una condizione che forse non era stato lui a cercare. Ricordo che col passar degli anni, quando l’età e le vicissitudini della vita lo avevano reso ancor più ruvido e scontroso, spesso nel tornare da caccia lo trovavo seduto sui gradini della chiesa, distante poche decine di metri da casa mia, gli passavo talmente vicino con l’auto che avrei potuto calpestargli i piedi con le ruote. Lo facevo apposta, perché cosi facendo sapevo che mi avrebbe seguito fin sotto casa, dove, con il solito sorriso ironico mi avrebbe chiesto cosa avessi preso. Ed io, che sapevo quanto amasse gustare la selvaggina, come spesso facevo gli offrivo ciò che la dea Diana quella mattina aveva deciso di donarmi.

Gran personaggio era Totonn. A lui, che con i suoi racconti per primo mi avviò a questa caccia, devo incommensurabili godimenti d’animo, vissuti in trepidante attesa nell’ora più bella, quando nulla ancora riesci a scorgere, ma dal fruscio d’ali e dal lieve sciabordio d’acqua inteso pocanzi sai che ci sono e che niente potrà spaventarli e metterli in fuga se non l’assordante battito del tuo cuore.

Ero ancora alle prime armi, quando iniziai a frequentare il negozio che Enzo, insieme alla moglie Rosa, gestiva sulla provinciale che da Nocera porta a Sarno, cittadina quest’ultima che diverrà poi famosa per una catastrofica alluvione. Era qui, tra canne da pesca, stampe di plastica disposte in file ordinate, stivali, cartucce e quant’altro servisse per la caccia, che passavo la maggior parte delle mie serate. La scelta del negozio dove rifornirmi di tutto il necessario per le mie scorribande venatorie non fu casuale, ma ebbe origine da una motivazione ben precisa ,quella cioè d’aver saputo che il proprietario, assieme ad un paio di amici, praticava proprio il tipo di caccia che Totònn mi aveva tanto decantato, in più mi era stato raccontato “con dovizia di particolari” anche di qualche loro mitico carniere. Ed io, che certi numeri li sentivo solo per caso durante le estrazioni del lotto, ed abituato com’ero a sudarmi qualche Alzavola o più raramente un Fischione dall’argine di un fiume, non sapevo se dar credito o meno a quelle voci. Fin quando una sera di fine Novembre mi recai, come di consueto, presso il suddetto negozio. Mi ero da poco seduto, quando avvertii il rumore di un auto che si fermò qualche metro più in là dalla vetrata d’ingresso, poco dopo ne sentii chiudere le portiere. Pensai fossero i soliti clienti, ma poi visto che non entrava nessuno preso dalla curiosità mi affacciai. Era Enzo, che appena tornato da caccia stava slegando la corda che ancora teneva ben saldi al portapacchi i sacchi delle stampe, mentre i due amici che erano con lui proprio in quel momento stavano per entrare in negozio reggendo tra le mani degli enormi fasci d'anatre. La moglie stese sul pavimento dei fogli di giornale, in modo che questo non si sporcasse col sangue che ancora colava dai loro becchi, quindi vi disposero sopra le anatre. Anche se all’epoca avevo poca esperienza non mi fu poi così difficile riconoscerne le varie specie , grazie alle tante riviste di caccia che già allora avidamente leggevo. Erano Fischioni in prevalenza, poi Canapiglie, Alzavole, qualche Codone faceva bella mostra di se tra i colori più smorti, il verde brillante della testa di un Germano Reale.
In poco tempo il negozio si riempì di cacciatori, sbucati da chissà dove. Vi furono quella sera complimenti a non finire accompagnati da numerose pacche sulle spalle, qualcuno pensò addirittura se non era il caso di stappare uno spumante, ma si decise che per Natale c’era ancora tempo. Un altro chiese più di una volta ad uno dei tre, sussurrandoglielo in un orecchio, dove fossero stati a caccia, ma non ricevendo alcuna risposta si convinse che da “quell’orecchio” forse l’amico non ci sentiva . Alcune foto di gruppo conclusero la serata. Si rimase soli, prima che andassi via vollero regalarmi alcuni capi che accettai con piacere.

“Sibari è un altro mondo, se vuoi potrai venire con noi qualche volta ” mi disse Antonio, mentre con una mano reggeva un grosso fascio d’anatre e con l’altra aiutava Enzo a tirar giù la rumorosa saracinesca del negozio.
Restammo ancora un po’ per strada, dove i tre amici con entusiasmo rivissero le tante emozioni della giornata appena trascorsa. Quella sera stessa mi raccontarono che con altrettanta tenacia essi cacciavano sull’arenile antistante la foce del Sele, a poco più di mezz’ora da casa. E anche se, come tennero a precisarmi, le due zone non vedevano certo lo stesso numero di uccelli durante la migrazione autunnale ,le occasioni per un discreto carniere non sarebbero mancate neppure qui.

”Caccia dura quella dalla spiaggia - mi dissero - fatta per pochi e non per tutti”. Quelle parole mi furono da sprone, le presi come una sfida, volendo dimostrare a loro e a me stesso che potevo essere uno di quei “pochi”. Fu così che tornando dal fiume sovente prendevo la direzione del mare, e lasciata l'auto a ridosso della pineta, a piedi mi incamminavo verso la spiaggia, e li di nascosto osservavo i vari appostamenti. Minuscoli capanni che fuoriuscivano non più di un metro dalla sabbia, da dove i cacciatori con dei grossi binocoli tenevano d’occhio l’immensa distesa del mare e il nutrito gioco di stampe posto a pochi metri dalla battigia . A volte mentre ero li comparivano i selvatici, che dopo vari giri concentrici sembrava li per li volessero posarsi tra le stampe, alcuni lo facevano, altri, i più sospettosi, continuavano nelle loro evoluzioni , spesso però si allontanavano portandosi dietro anche quelli che già si erano posati, mentre gli uomini, impassibili , mani strette ai fucili, aspettavano che si ripresentassero al gioco.

Tornavano, più decisi di prima, ”incoppando” le ali, planando con un lieve dondolio sulle stampe, incuranti, anche se solo per un attimo, degli uomini che in quell’istante comparivano come dal nulla da quelle buche dove fino a quel momento erano rimasti immobili scavate vicino alla battigia e nascoste alla vista dei selvatici con ramaglie e quant’altro veniva lasciato sulla spiaggia dalle frequenti mareggiate autunnali. Un’assordante scarica di colpi in quei momenti si avvertiva per l’intero arenile, dopo era facile osservare il bianco addome degli uccelli che appena abbattuti galleggiavano tra le stampe .Dio quanto tempo avevo perso giù al fiume, dove solo di rado ero riuscito ad abbattere di più che non fosse la solita coppia di alzavole o di fischioni. Ma qui era tutto diverso, non solo di primo mattino, ma in qualsiasi ora del giorno comparivano gli uccelli e spesso in grandi branchi.

Stava proprio in questo il fascino di questa meravigliosa caccia. Non sapevo ancora come, ma dovevo iniziare. Seduto a ridosso della piccola duna cosparsa di stipa che avevo scelto come punto di osservazione, riflettevo sul da farsi, mentre mi inebriavo di quell’aria salmastra che una lieve brezza di mare portava con se, la stessa che mi avrebbe accompagnato poi per quasi trent’anni di caccia a mare. Non pensavo ad altro, quel profumo di acqua marina misto all’odor di ginepro e di rosmarino selvatico oltre che nei polmoni mi era entrato anche nell’animo. Di li a poco avrei iniziato. Mi ritrovai così a cacciare da solo e con poche stampe, affiancato da tese ben più attrezzate e quasi a ridosso l’una dall'altra. In mezzo a quelle vecchie volpi incallite con tanto di mestiere all’inizio fu davvero dura, ma più tempo passava e più imparavo, ritagliandomi così, di tanto in tanto, anche la mia bella particina da protagonista dopo le tante fatte da “comparsa”.

I meriti di questi miei, seppur modesti successi, furono principalmente da attribuire ad un volantino, l’unico visto che prima di allora nessuno ne aveva mai usati ,forse per la difficoltà di poterli recuperare in mare una volta lanciati, o forse per altro, chissà, fatto sta che fui il primo almeno in zona, a sperimentarne l’uso.
Si rivelò, questa, impresa assai ardua, viste le difficoltà che questa pratica comportava e la mia totale mancanza di esperienza . Ma come si dice..” la fortuna aiuta gli audaci”. Così dopo svariati tentativi andati a vuoto con volantini che di “volare” non ne volevano sapere, o che dopo averli lanciati cadevano come sassi in uno stagno, mi ritrovai tra le mani un maschio piccolo e slanciato, che faceva parte della covata dell’anno precedente, ottimo volatore, che lanciavo più volte durante la giornata di caccia, anche in assenza di selvatici, così tanto per abituarlo. Era questo talmente docile che dopo ogni lancio una volta ammarato risaliva a riva e si accovacciava accanto alla sua preferita che tenevo legata proprio sul bagnasciuga accanto alla “buca”, dove si lasciava catturare con estrema facilità.

Fu solo fortuna, perché ieri come oggi, niente capivo di volantini, l’unica cosa a cui stavo attento, perché l’avevo letto più volte, era quella di non lanciare mai il volantino in faccia ai selvatici e debbo dire che questo dava spesso i suoi frutti.

”Arturo”, così qualcuno lo aveva chiamato, aveva svolto sempre nel migliore dei modi il suo compito, tranne una volta quando verso le otto di un mattino di metà Ottobre con un mare piatto e una leggera brezza di terra comparvero alti quattro codoni che sentiti i richiami si avvicinarono alla spiaggia, e osservando dall'alto le varie tese, distanti tra loro davvero poco, e non avendo che l'imbarazzo della scelta, calavano per poi scansare ora quel gioco ora l'altro, collocati in mare antistante la foce sia a destra che a sinistra di questa, e i quattro codoni sembravano intenzionati a evitarli tutti. Quando gli uccelli furono nei pressi della mia tesa lanciai il volantino.” Arturo” si era sempre tenuto a distanza dai giochi adiacenti, come sempre si era disinteressato dei richiami delle femmine li legate, quella mattina però ad ali socchiuse dopo i soliti due o tre giri concentrici anziché calare sul mio gioco come aveva sempre fatto, approdò, seguito dagli uccelli, su quello dei “gragnanesi” che increduli per l'inaspettato "regalo" dopo aver abbattuto tre dei quattro codoni, recuperarono il volantino e lo riportarono al sottoscritto con i dovuti ringraziamenti, non prima però di avermi raccomandato di starci più attento a quel volantino perché qualche “sprovveduto” avrebbe potuto anche farmelo fuori.
Tanto tuonò che piovve!

Mattino soleggiato di metà Novembre, sono circa le dieci, di uccelli nemmeno l’ombra. Come spesso accade in questi casi la stanchezza e l’aria tiepida, mi trascinano in un mondo da me già tanto agognato, avrei voluto, in quel momento, chiudere gli occhi solo per riposarli un po’ e invece mi ritrovai assopito. Non so quanto avessi dormito, ricordo solo che a svegliarmi fu quella “mezza stretta” delle anatre che mi fece sobbalzare dalle braccia di Morfeo in cui ero caduto. Portai lo sguardo al di sopra della piccola parata di canne, ma per quanto mi sforzassi non riuscivo a vedere nulla, la luce sempre fastidiosa dopo il sonno e i raggi del sole che riflettevano sull’acqua ,facevano si che non riuscissi a vedere null’altro che le stampe poste più vicino a riva. Poi gli occhi si abituarono alla luce, così le cose e tutto ciò che le circondava lentamente ripresero le loro reali dimensioni, ma nulla ancora riuscivo a scorgere. Stavo per sporgermi completamente dalla buca, quando mi accorsi di un uccello, che nuotando velocemente si allontanava dalle stampe. Nel luccichio riflesso dall’acqua ne distinguo appena la sagoma e l’esigua scia che questo, allontanandosi, lascia dietro di se, si ferma, torna indietro, ma solo di qualche metro, poi riprende ad allontanarsi, ci ripensa e velocemente si riavvicina alle prime stampe, tentenna, sta pensando di riallontanarsi, ma ormai è a tiro, lo miro a lungo, dalla sagoma potrebbe essere un Germano, ma sembra più piccolo, forse una Canapiglia. Un attimo di esitazione, come un presentimento, poi pressato dall’idea che l’uccello possa levarsi da un momento all’altro, porto il fucile al disopra della parata di canne e lascio partire il colpo. La Gemma è già in acqua, prima che lo porti a zonzo per mezza spiaggia sarà meglio farsi trovare sul bagnasciuga.
Nell'uscire dalla buca lancio un occhiata alla cassetta dei richiami poco distante alle mie spalle dove poco prima era rinchiuso il maschio, mi accorgo che ha lo sportellino aperto, ripenso a chi, poco tempo prima, mi consigliava di stare attento a qualche “sprovveduto”.

Quello fu l'unico volantino, degno di questo nome, che "circolò" per foce Sele.
Altri tentativi risultarono vani per la poca distanza vigente tra i vari appostamenti, e sovente i volantini lanciati da una tesa calavano su quella adiacente o si allontanavano in mare e venivano persi. Per cui, onde evitare di rovinarsi il fegato, nessuno li usò più. Vera arte quella dei volantini, cultura a cui non appartenevamo. Non molto tempo dopo il solito burocrate di turno decise che non si sarebbe più cacciato sulle spiagge della Campania . Fu la fine di un sogno. Non per questo mi arresi però, e da allora, anche se su arenili diversi caccio sempre dalla riva del mare.

Suona la sveglia, ci aspettano le solite tre ore di macchina e una faticaccia per preparare il gioco e la buca, ciò mi fa rimpiangere, e non poco, il mio solito tratto di arenile, ci sarei giunto in poco più di mezz’ora, dove ad aspettarmi avrei trovato gli amici di sempre, che dopo aver occupato le postazioni migliori ora seduti intorno al fuoco ti accoglievano con il solito sfottò di “chi tardi arriva male alloggia”. Avremmo scherzato come sempre su quel volantino rimasto ormai famoso, e che uno “sprovveduto” abbatté in una tiepida mattinata di Novembre, o su chi tempo prima non si accorse del branchetto di Fischioni che una volta calato nelle stampe, tra lo “sguaiare” delle germanate le girò in lungo e in largo per poi ripartirne indenne solo perché questi dormiva, stremato dalle tante sveglie antelucane e da un tiepido sole presente anche quella mattina. Poi fumata l’ultima sigaretta, con la cassetta delle anatre in spalla ci saremmo diretti ognuno nell’appostamento precedentemente occupato e qui una volta calati i richiami avremmo atteso con impazienza che giungesse l’alba. L’auto corre veloce sulla Salerno - Reggio Calabria, inghiottita a tratti da moderne e luminose gallerie, cui seguiranno, all’approssimarsi della meta, quelle più buie e fatiscenti accorciando sempre più la distanza che ci separa da Sibari.

Stanotte non tocca a me guidare, stanotte rannicchiato sui sedili posteriori dell’auto voglio solo chiudere gli occhi e sognare, sognare i vecchi amici e quel falò, dove nelle notti gelide in cerchio ci sedevamo mentre il fuoco scoppiettando liberava nell’aria miriadi di piccole stelle, che illudendosi di poter raggiungere il cielo si spegnevano, invece, prima che potessero oltrepassare le cime più alte della pineta.


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