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Caccia di Mario Fedrigo
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Sono stati i legamenti crociati di un ginocchio e il terrore di Mario per l’intervento chirurgico a portarlo
alla caccia in valle. Prima, infatti, andava alla stanziale con il cane: in pianura o in collina. Le emozioni
di una bella ferma o di una guidata sulle starne. La soddisfazione di un riporto incredibile. Ma il ginocchio
faceva male, si gonfiava e cedeva.
Alla caccia in palude fu iniziato da un personaggio fantastico, un romagnolo verace: Eugenio Cortesi, Vgéni in
dialetto, Furmajin per gli amici di Sant’Alberto o meglio Sant’Albérto con una “e” molto chiusa. Un omone grande,
robusto come una quercia, il ras della Valle della Canna. Un bel viso aperto, cordiale, schietto, cotto dal sole
e con sempre la barba di almeno due giorni. Lo sguardo penetrante, vivo, attento. A volte severo, a volte dolce
come il suo sorriso, il sorriso di un amico.
Sant’Alberto era per Mario come l’Eldorado, qualcosa al di fuori del mondo conosciuto, che assumeva un fascino
particolare d’inverno col freddo e la nebbia. Era un retaggio trasmesso dal Nonno che andava su un fiume del veneto
a pescare anguille e pesci gatto con le nasse, una passione tramandata dal Padre che, Mario piccolo, vedeva sparare
ai beccaccini nelle marcite.
Arrivato a Sant’Alberto, andava a mangiare delle favolose anguille da Balboni e si fermava a dormire nella casa
accanto, molto soddisfatto per essere lì ai margini della valle, nel paese di Stecchetti, celebratissimo dai
bolognesi. Era forte il fascino di questo paesino avvolto dalle leggende cruente del Passatore, dalla commovente
storia di Anita Garibaldi. Entusiasmante per il canto delle anatre che arrivava di lontano.
Proverbiali le discussioni, brevi ma accalorate, tra Eugenio e quelli che si permettevano di attraversare il “suo”
chiaro, dicendo che non era “suo” e che loro di lì potevano passare. In verità successe una sola volta, perché
Furmajin, di poche parole, sparò due metri davanti alla barca dell’usurpatore e questi, “suo o non suo”, fece
retromarcia e scomparve in mezzo alle canne.
Mario non era mai stato in botte e non sapeva cosa volesse dire stare nascosto, immobile, senza muovere la testa
o una mano o il fucile. «Gli uccelli ti vedono prima che li vedi tu» – continuava a dire Eugenio – «e se vanno via,
quelli non tornano più». L’omone di Sant’Alberto incuteva grande soggezione e rispetto. Mario aveva continuamente
paura di sbagliare, di rovinare la giornata venatoria. Pendeva dalle sue labbra, avido di insegnamenti. Voleva
imparare tutto, perché non sapeva niente.
«In botte si deve entrare un’ora prima dell’alba – diceva Vgéni – perché c’è da fare il gioco. Mettere giù tutti gli
stampi e i vivi. Tagliare delle canne e ornare la botte, perché se non stai nascosto non viene niente. Capito !?».
Era tanto affascinato che si limitava ad annuire col capo, senza parlare per non interromperlo. Si rendeva conto
che era una vera lezione su tutte le cose necessarie per il nuovo tipo di caccia. «Insomma, devi stare fermo e
nascosto bene dalle canne e devi stare attento a guardare se arrivano e da che parte arrivano. Se si mettono lo
fanno contro vento, ma non fidarti molto che si mettano, perché basta un niente e si rialzano e lì spari, sempre
con l’anticipo anche se ti sembrano fermi. Ricordati che se lo sbagli vuol dire che ci sei stato dietro, e...sparare
a tiro!».
Parlava adagio, con calma. Le cose che diceva erano dogmi. «Ma quand’è che sono a tiro – chiedeva Mario – sai non
è mica facile saperlo senza riferimenti». «Quando gli vedi gli occhi ti alzi e spari, ma solo in quel momento ti
muovi. È un attimo, una frazione di secondo». Continua. «E poi, ricordati, lasciali giocare. Se hanno voglia di venire,
vengono! Ma te li conosci gli uccelli? – «Mica tanto. Conosco il germano maschio, perché ha la testa verde e
l’alzavola, perché è più piccola». – «Eh, no. Bisogna conoscerli dal volo, dalla forma delle ali, ciò, altrimenti
come fai a chiamarli?! Sono tutti diversi». A questo punto Mario si chiede che sarebbe stato meglio darsi alla
pesca. Non che sia più facile, ma per il tipo di pesca che aveva sempre fatto gli sembrava un’attività meno
complicata.
La lezione continua. «Se vedi che ci sono i pazzetti (alzavole, ndr) ci devi dare col richiamo giusto e se sono
rocchetti (marzaiole, ndr)? Anche loro sono grandi uguali, ma hanno un altro richiamo. E poi qui ogni tanto arrivano
i magassi (moriglioni, ndr) che hanno tutta un’altra voce».
A proposito di magassi, un giorno ne arriva uno: spariamo entrambi. Questo cade in acqua ferito e va sotto. «Dai,
salta in barca che lo recuperiamo». Mario non vedeva niente, ma Vgéni sa dove e come cercare. Con due colpi di
paradello spinge la barca verso le canne. «Se va nella canna non lo troviamo più». Infatti, dopo poco vediamo una
scia sott’acqua che va verso il limite del chiaro, poi scompare. «Eugenio, non vedo più niente!» – «Ci ha visto e
s’è fermato, ma tra un po’ viene fuori a respirare». Passa qualche minuto, ma non succede niente e Mario, inesperto,
propone di andare via «Chissà dove si è cacciato. Questo non viene più fuori!» – «Guarda bene, non vedi che è lì?»,
e mi indica un punto nell’acqua dove spunta uno strano affare grigio – azzurro. «Quello lì è il becco: sta prendendo
aria» – «Allora ci sparo sopra» – «No, lo rovini. Bisogna sparare nell’acqua, di fianco e d’angolo. Sta’ a vedere».
Sposta in dietro la barca e tira come aveva detto, con l’angolazione giusta. L’uccello salta fuori dall’acqua e
ricade morto. «Ecco vedi, è intatto. È morto per lo spostamento d’acqua».
Sorprendente.
Era un gran tiratore Eugenio. Una volta arrivano cinque germani che, dopo aver giocato sui richiami, si mettono
davanti alle botti. «Fermo» sibila fra le canne, perché aveva capito che il giovane inesperto avrebbe voluto
sparare subito. «Immobile» ribadisce con un filo di voce. I germani nuotavano tra gli stampi restando piuttosto
uniti, fino a quando tre sono in linea. Eugenio a questo punto scatta come una molla e con un colpo li stende
tutti e tre, poi con altre due fucilate fa cadere gli altri due: uno a destra, l’altro a sinistra. Non ci sono
parole, solo uno sguardo. Lui strizza l’occhio e fa una gran risata.
Di fronte a un piccolo capolavoro come questo, cinque uccelli con tre fucilate, anche Mario voleva fare qualcosa
di buono. Arriva un germano piuttosto lungo e non aveva intenzione di abbassarsi. Mario punta e con l’anticipo
giusto lo fa cadere con una sola fucilata. Raggiante esclama: «Hai visto che tiro!» e lui gelido e con una punta
di disprezzo risponde: «Bella roba! Adesso chi lo va a prendere là in mezzo alle canne? Quello lì è un uccello
perso. Io li voglio lì, in mezzo al chiaro con le gambe per aria, hai capito?!».
Grande maestro Eugenio! Smise di fumare, perché gli si era ingrossata troppo la voce e non riusciva più a far
bene il verso dell’alzavola femmina che lui chiamava a voce.
Sono anni che non si vedono, ma alcuni giorni fa Mario telefona prendendosi una serie di nomi, perché non s’era
fatto più sentire. Era molto amareggiato e triste di non poter più andare né caccia né a pesca. «Sai, i medici
me l’hanno proibito da quando mi hanno messo quel coso lì, come si chiama black&decker, intendendo il pacemaker.
Mi hanno detto che non posso più sparare, ma io lo farei anche se dovessi rimanerci secco. La mia paura, invece,
è che se dovessi rimanere paralizzato su una poltrona sarei fregato. Hanno scritto un libro su di me, con tutte
le mie storie, ma te lo do solo se lo vieni a prendere. E te cosa fai? So che vai sempre a caccia e che sei andato
in pensione. Vien mi a trovare. Ciao».
Questo fu il primo tempo. Sant’Alberto fu l’iniziazione, Eugenio il padrino.
Poi il lavoro portò Mario lontano, a Bari dove non conosceva nessuno e non sapeva come fare per andare a caccia.
Un amico barese gli fece conoscere la caccia ai tordi, in mezzo agli uliveti, nascosti da cataste di fascine, ma
non era particolarmente interessante. L’unica cosa interessante, invece, erano i caseifici della zona che
sfornavano, verso le dieci, delle favolose mozzarelle: uniche prede sicure.
Mario cercava l’acqua e finalmente la trovò. Ebbe un invito a Daunia Risi, una riserva bellissima, in agro
di Manfredonia, oggi Parco naturale del Gargano. Era una meraviglia. Tenuta molto bene. Acqua pulita, trasparente,
come deve essere in tutte le valli, altrimenti gli uccelli non vengono. Quel giorno in Daunia il nostro provò delle
emozioni incredibili, come avere nel gioco quaranta codoni, e fu una sensazione indicibile quando si posarono
tutti insieme nell’acqua. Tornò ancora in quella riserva e le sollecitazioni furono sempre maggiori, perché
sapeva dove e cosa guardare, non essendo frastornato dallo stupore della prima volta. Resta indelebile il
ricordo degli uccelli che entrano a branchi scavalcando il promontorio del Gargano. Il loro canto e i volteggi
mozzafiato che facevano per scendere in picchiata sulla valle. Bellissimo!
Ancora il lavoro restituì, fortunatamente, Mario ai patri lidi. Dopo cinque anni ritornò a Bologna e subito cercò
dove andare a caccia. Eugenio da Sant’Alberto comunicava, in mezzo a due moccoli romagnoli, che la Valle della Canna
era diventata un biotopo e pronunciò questa parola con tanto disprezzo e disgusto da suonare come una bestemmia.
Ricco degli insegnamenti del guru di Sant’Alberto, si mise alla ricerca di altre valli. La passione non era spenta,
era soltanto sopita.
Cercò allora nella bassa bolognese e ferrarese, ma le esperienze fatte furono tutte molto deludenti e, nonostante
l’entusiasmo, abbandonò tutto per un paio d’anni. Poi una sera, in casa di amici, gli propongono una valle nella
bassa modenese. Doveva rispondere subito, perché era un posto molto appetito. Si fidai e risponde affermativamente.
Fu così che entrò nella Valle Cristina il cui proprietario e gestore risponde al nome di Gianni Pasquali: un mago.
Molte volte amici e conoscenti chiedono che gusto ci sia a fare delle levatacce, al freddo oppure in autunno in
mezzo a nugoli di zanzare, completamente cosparsi di repellenti sul viso, sulle mani, sui vestiti. È difficile da
spiegare e quasi impossibile, per chi ascolta, da credere. Eppure i cacciatori aspettano quei momenti con
trepidazione: sensazioni ed emozioni incredibili.
Una sensazione molto particolare “che intender non lo può chi non lo prova” è l’operazione di imbarco, a buio pesto
nel barchino con l’aiuto di una piccolissima pila, tassativamente rivolta in basso, per evitare di finire in acqua.
Viene sistemato il sacco coi richiami vivi che ogni tanto commentano sommessamente, durante il tragitto sull'acqua
nera della valle. Il silenzio è rotto soltanto dal fruscio del remo e dal sibilo di ali ancora invisibili nel cielo.
Nell’oscurità totale appare improvvisamente qualcosa ancora più scura: la botte e le frasche che la mimetizzano.
Arrivati si scarica tutto, poi si prepara il gioco. Prima gli stampi che devono sembrare anatre vere, perché le anatre
non sono cieche e nemmeno stupide, diciamo che sono imprevedibili, poi vengono messi in acqua i richiami vivi.
Una volta che tutto è a posto si entra in botte, ben sapendo che, a seconda delle circostanze, si dovrà cambiare
il piano d’azione. Ecco l’emozione: ben nascosti in botte, osserviamo con trepidazione un gruppo d’alzavole che
si abbassano sui richiami e, dopo alcuni passaggi, si sono finalmente posate, ma non ne vogliono sapere di entrare
nel gioco. Poi improvvisamente se ne vanno, così senza una ragione. Poco dopo ritornano e dopo un paio di passate
eccole ancora posate, ma ancora fuori tiro. Questa storia può durare anche tutta la mattinata; tutto può
svanire all’improvviso senza apparente motivo.
A questo punto cominciano i dubbi e le imprecazioni. Ci si chiede cosa sia successo, cosa non abbia funzionato,
in cosa si è sbagliato: forse il gioco non è fatto bene, forse ci hanno visto, forse quel richiamo vivo ha
starnazzato troppo o troppo poco. E la volta dopo riprovi: alcuni branchetti d’anatre hanno visitato più volte
il tuo gioco ed in diversi giorni, poi non si sono più viste, altre invece, sono ritornate e si è notato che ad
ogni nuova visita coincideva un piccolo miglioramento, erano sempre più vicine, tutto a piccoli gradi, fino al
giorno in cui, finalmente entrano nel gioco. Ma è giusto così, vivere il loro ambiente a modo loro, non intervenire
più di tanto nella modificazione dei siti, non forzare le loro abitudini, perché è una gran fortuna per tutti, che
solo una piccola parte di selvaggina entri nel gioco, altrimenti sarebbe solo un massacro.
Gli stampi più lontani dal capanno non devono essere a più di venticinque metri. Le anatre che si mettono fra
altre anatre preferiscono farlo in una zona più aperta. Il “buco” deve essere davanti alla botte, o le anatre si
poseranno fuori tiro. Sparare alle anatre a fermo nell’acqua non è sportivo e se ne feriscono più di quante se ne
uccidano, perché gran parte del corpo dell’anatra è protetta dall’acqua. Comunque la tentazione di sparare
“a butto” è fortissima.
A meno che il cacciatore non abbia grande esperienza e ottimi richiami è meglio che stia zitto. Chiamare le anatre
è un’arte difficile, specialmente per quelli che le anatre vere non le hanno sentite mai. Fortunatamente, più le
anatre sono infastidite, sparate, e spaventate, e meno “parlano”. Perciò se anche il cacciatore se ne sta zitto,
evita di fare sbagli, le anatre possono scendere anche in un gioco muto.
L’impatto emotivo è sempre fortissimo anche tra milioni di zanzare o con un freddo birichino. E’ troppo bello
sentirle arrivare, riconoscerle in volo, cercare di intuire le loro intenzioni a seconda del tipo d’anatra. In
un attimo la mente va alle esperienze passate e si cerca di ricordare come si erano comportate quelle che erano
venute a gioco allo stesso modo. Attenzione però: al prossimo branchetto sarà tutta un’altra storia, insomma inizia
un’avventura sempre nuova.
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