I racconti dei cacciatori di acquatici
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Il cacciatore p.f.d.a. (pazzo furioso di anatre) di Gianluigi Bocchi
Questo racconto e' tratto dal libro “Le Valli di Comacchio - Una caccia d’altri tempi” di Gianluigi Bocchi pubblicato tra le offerte in esclusiva per Anatidi.it.
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In pochissimi altri cacciatori ho riscontrato una passione violenta come la mia. Che cosa significhi per me la caccia lo capirete meglio leggendo questa lettera che inviai ai miei compagni del collegio Morosini che si ritrovarono a Venezia dopo circa diciassette anni.
Io non potevo essere con loro per l’alto “senso del dovere” che mi aveva costretto ad andare a caccia in botte anche in quella ricorrenza.

Comacchio, 29 settembre 1990.

Per esservi vicino il più possibile, vi racconterò i miei ultimi diciassette anni e per non annoiarvi li riassumerò in poche righe.

1973 – Esco dal collegio che sono già un ometto. Mio padre spera che faccia medicina, mia madre l’avvocato. Io scelgo di fare l’insegnante di educazione fisica. Frequento a Firenze. Ci vado ogni lunedì e martedì. Il mercoledì torno a casa per mettere a posto la tina dove aspetterò le anatre al varco. Giovedì caccia e allenamento di calcio, venerdì caccia, sabato caccia, domenica caccia e partita di pallone giocata nella squadra del Comacchio.

1977 – Mi manca la tesi, mi manca tanto. Così la compro in Alto Adige. Il professore dice che è antiquata; e te lo dico io, è stata scritta nel ’60. Mi stufo e lascio l’I.S.E.F.

1978 – Sono militare di leva. Per andare a caccia ne combino di tutti colori: scappo dall’ospedale. Mi faccio passare per matto e la parte mi riesce molto bene. A casa mi faccio togliere il sangue dal braccio, iniettarlo alla caviglia e ingessare la gamba. All’ospedale militare non la bevono. Mi tolgono il gesso. Sto rischiando Gaeta, ma per fortuna il sangue iniettato è diventato pesto.
È convalescenza. Conoscerò in seguito un tenente medico cacciatore. Da quel momento passerò a casa 330 giorni di cui un gran numero spesi a caccia col mio amico tenente.

1979 – Vado ad abitare per conto mio, mia madre al piano di sopra ed io a quello di sotto. Verniciamo i mobili di rosso.

1980 – Mi sposo con Marisa, metà italiana e metà venezuelana. Dipinge i mobili di giallo. Mi sposo di martedì perché la domenica prefissata vado a caccia. Lei fa la farmacista, io in autunno e d’inverno vado a caccia e d’estate noleggio pedalò. Si andrebbe d’accordo se non fosse che a volte, soprattutto quando entra in casa la mia Anatra Ivana, mi tiene il muso anche per dieci giorni consecutivi.

1981 – Divorzio: le condizioni sono che io le ceda tutto quello che abbiamo acquistato durante il periodo di convivenza. Acconsento volentieri purché se ne vada. Lei lascia l’appartamento completamente vuoto e quando la sera stessa premo l’interruttore per accendere la luce, l’operazione non mi riesce. Scoprirò che ha portato via anche tutte le lampadine. Sarà solo una coincidenza, ma il suo nuovo uomo fa l’elettricista.

1982 – Un’amica di mia madre la tranquillizza: “Se tuo figlio non è ancora quadrato, è solo questione di tempo” – assicura – “ vedrai che quando avrà ventitré/ventiquattro anni, metterà la testa a posto.” Mia madre, ancora più avvilita, le risponde che ne ho quasi trenta.

1984 – Vinco la mia prima gara in velocipio, la versione comacchiese del gondolino veneziano con voga in piedi, uno sport che amo molto.

1985 – Un mio caro amico, mia madre e in particolare mia sorella Rossella insistono perché termini gli studi. Insistono tanto che mi stufo. Ripresento la stessa tesi, ancora più antiquata (sono passati nel frattempo altri otto anni). Il professore è lo stesso, ma adesso dice che va tutto bene. Forse si era stufato anche lui! Il 25 giugno 1985 incornicio il mio diploma d’insegnante di educazione fisica.
Quell’inverno è l’inverno del grande freddo. Il mio amico ed io, “gattonando” sul ghiaccio per avvicinarci agli uccelli acquatici, impariamo a nostre spese a riconoscere il linguaggio dei suoi scricchiolii. Ci scappa da ridere anche quando annaspiamo all’improvviso in mezzo all’acqua gelida. La gente dice che se venisse con noi Rambo, al massimo potrebbe portarci le munizioni. Vado a caccia con la febbre a 40°, con la gamba ingessata e con la colica renale.

1986 – Incontro la ragazza con la quale convivo e che ha verniciato i mobili di marrone.

1987 – Non partecipo al matrimonio di mia sorella che ha fatto lo sbaglio di sposarsi a caccia aperta. In febbraio qualche ignoto ruba il mio battello in Umana. “Sono costretto” a prenderne un altro che presenta un buco nel fondo. Pur consapevole che non ce la farò mai a raggiungere la riva opposta, parto ugualmente e affondo a cinquecento metri dalla Penisola di Boscoforte. Poi trascino la barca a terra, strizzo i vestiti e inizio a cacciare.

1990 – Tutti vogliono che faccia il concorso per insegnare ginnastica a scuola, ma io mi sento realizzato ad andare a caccia in autunno e d’inverno e ad affittare pedalò d’estate. Ancora un anno fa un’amica di mia madre, per consolarla, insisteva: “A trent’anni mettono tutti la testa a posto.” Al che mia madre, di rimando: “Mio figlio di anni ne ha trentasei!”

Oggi, che a cinquantaquattro anni ho superato le 2.600 giornate di caccia trascorse in valle e ho percorso circa 40.000 km in barca a remi e a paradello, la mia sindrome di “Peter Pam Pam” non accenna a sopirsi, tutt’altro.
Continuo a insultare Eolo, il Dio del vento, quando affronto le burrasche della valle, continuo a mettere a repentaglio la salute e la pace familiare, continuo a infuriarmi dopo ogni errore commesso mentre caccio e continuo ad avere alcune caratteristiche comuni alla famiglia degli equini: mi sento paziente come un somaro a caccia, resistente come un mulo nei lavori venatori e matto come un cavallo nell’affrontare le situazioni che si vengono a creare in valle e nella vita.

Siete anche voi cacciatori pazzi furiosi di anatre?


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