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L’epico rastrello di Gianluigi Bocchi
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Questo racconto e' tratto dal libro “Le Valli di Comacchio - Una caccia d’altri tempi” di Gianluigi Bocchi
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Le parole di Nando Folegatti, vecchio cacciatore di valle, incominciano ad accendere le immagini...
Eravamo nei primi anni del 1950 e mancavano pochi giorni a Natale quando l’amministrazione comunale
incaricò mio padre Girolamo, comandante supremo delle guardie vallive, dell’organizzazione del rastrello,
caccia collettiva alle Folaghe, nella grande Valle del Mezzano.
Il giorno successivo l’esperto uomo di caccia eseguì l’abituale sopralluogo atto a verificare la
consistenza della selvaggina. La sua barca avanzava silenziosa costeggiando l’Argine d’Agosta che
separava il Mezzano da Fossa di Porto. Grandi mucchi di Ruppia accatastati lungo la riva tradivano
la presenza delle Folaghe. Mio padre si avvicinava alla zona interessata con circospezione esaminando
attentamente il territorio quando un branco di Morette proveniente dal mare sfrecciò alto sopra la sua
testa. Lo seguì con lo sguardo fino a quando lo stesso ridusse la velocità, si abbassò, fece quattro/cinque
giri intorno a una grande barena e si posò ai suoi margini. Ma no, non era un dosso, era un’immensa,
meravigliosa rosta di Folaghe! I capi stimati da mio padre toccavano le centomila unità! Dopo alcuni
giorni, sentito il parere degli anziani cacciatori comacchiesi e constatata la bontà del tempo,
prese il via il grandioso rastrello.
Accarezzandosi la barba garibaldina Nando continua: Era ancora notte fonda quando a Comacchio furono
preparate le prime batane dei grandi cacciatori dell’epoca: i Bachaneane, i Maesagat, i Gambestorte,
i Gianate, i Vagiù, i Grapi… Chi si mise in viaggio con la vela, chi con i remi, chi si fece trainare
da un barcone a motore attrezzato per la pesca dei cefali. Alcuni pescatori di frodo, detti fiocinini,
attraversarono la valle a paradello. I forestieri (i cosiddetti sgnùri) invece, dopo aver pagato
regolare biglietto d’entrata e la giornata di lavoro al barcaiolo, s’imbarcarono a Longastrino, a
Ostellato, nelle vicinanze di Portomaggiore ecc. Intorno alle otto del mattino una flotta imponente
di circa quattrocento barche si dislocò quasi al centro della Valle del Mezzano nei vari punti di ritrovo.
I cacciatori, al loro arrivo, si trovarono di fronte a uno spettacolo superbo: la superficie dell’acqua,
liscia come l’olio, nereggiava di Folaghe, una sterminata prateria subacquea traspariva nella valle cristallina,
la Ruppia, spiaggiata dalla debole corrente, ricopriva ogni centimetro della zona. A quel punto il comandante
doveva decidere la tattica d’avvicinamento cercando di disciplinare quell’accozzaglia di gente in modo da
evitare gli incidenti provocati da un’errata disposizione delle barche. L’unica forma di comunicazione era
rappresentata dal passaparola dei cacciatori e dal suono in codice dei corni da nebbia.
Un attimo di commozione e l’uomo riprende: Mio padre allora ordinò che le ali (dette anche braccia),
formate da batane distanziate fino a un massimo di cento metri l’una dall’altra, si portassero a circa
mezzo chilometro dalla sterminata colonia. Altri cacciatori erano già appostati nelle tine vicine e
assiepati lungo gli argini che circondavano la valle. Nel frattempo una miriade di uccelli, soprattutto
Magassi, aveva abbandonato lo smisurato branco e i rallidi, impauriti, incominciavano ad addossarsi
l’uno all’altro. Dopo quasi due ore di tempo impiegato per la giusta disposizione delle imbarcazioni,
i corni da nebbia echeggiarono nella valle uno dopo l’altro a sancire l’inizio della singolare caccia.
Le ali si congiunsero e il cerchio si chiuse a tenaglia mettendo in trappola la rosta. A questo punto il
battello di mio padre si avvicinò alle Folaghe provocando lo scompiglio. I rallidi cominciarono a ciabattare
in un groviglio infernale per mettersi in volo.
Cominciò così il fuoco incrociato sui neri selvatici che in preda al terrore si sparpagliarono per
la valle senza seguire alcun tipo di formazione e direzione. Essi cercavano di superare
l’accerchiamento riempiendo il cielo a diverse altezze. La maggior parte volava a bassa quota andando
incontro a morte certa, solo alcuni riuscivano a sollevarsi al di sopra del tiro utile.
Il frastuono dell’artiglieria era incessante, assordante come in una battaglia e percepibile
a parecchi chilometri di distanza. Dopo le fucilate, i tonfi nell’acqua, gli schizzi, le imprecazioni
di rabbia per una padella, le grida di gioia per un tiro impossibile. I cacciatori afferravano le
munizioni disposte alla rinfusa sulla stuoia del battello. Poi caricavano le loro armi senza togliere
lo sguardo dal volo ininterrotto delle Folaghe simile a quello di uno sciame d’api impazzito. Il tiro
non era facile vuoi per la scomoda posizione (da seduti o in ginocchio) vuoi per l’incerta stabilità
della barca. I corpulenti barcaioli, costretti a virate repentine e a scatti brucianti necessari alla raccolta
dei rallidi, erano rimasti in maglia di lana di pecora confezionata dalla moglie. Di quando in quando nascevano accesi diverbi.
Ghitan Vagiù, vogatore eccezionale, rimproverò così un Romagnolo: “A m’ha rivà i belèn in tle betene, an sparè pieu ad fieanch!”
(“Mi sono arrivati i pallini nella barca, non sparare più di fianco!”). Tito Greppi, uomo gigantesco che non
avrebbe avuto paura nemmeno del diavolo, dopo l’uccisione di una Folaga, bersaglio di due colpi allo stesso
tempo, minacciò così un altro cacciatore: “ S’ad toch cla Folga ad tai la man, t’en vid brise ca l’ho masà mei?”
(“Se tocchi quella Folaga ti taglio la mano, non vedi che l’ho uccisa io?”). Un pescatore di frodo,
senza licenza e senza fucile, braccava gli animali feriti, li sfiniva e li infilzava con la fiocina. Ora
le canne delle doppiette “bruciavano” e i colpi della fucileria continuavano a rimbombare nella valle scoppiettando
come fuochi d’artificio nel rush finale. La carneficina stava per essere consumata. Con la complicità della
bonaccia e della pesantezza dei selvatici, gran parte di essi, sfiancati dagli inseguitori, non riuscirono più
a mettersi in volo e furono trucidati nell’acqua. Poi le fucilate cominciarono a rarefarsi fino a cessare del
tutto. I cacciatori avevano terminato le cartucce. Per alcuni giorni successivi alla mattanza i cani da caccia
scovarono le Folaghe ferite lungo gli argini e i dossi.
La stima finale fu di ben novantamila capi di selvaggina abbattuta, certo è che l’acqua, durante il rastrello,
cambiò di colore e tutti i cacciatori ritornarono a casa con le barche traboccanti di Folaghe e con i contenitori
delle munizioni assolutamente vuoti.
Era stato messo in atto il più epico rastrello della storia delle Valli di Comacchio!
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