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La Galiverna di Michele Boschetti
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Un venerdi freddo di inizio anno, la macchina avanzava sull’asfalto reso
viscido dalla pioggia e dal nevischio che oramai cadeva ininterrottamente
dal giorno prima, ma avanzava sicura e stabile sull’autostrada appenninica
con una meta ben precisa “Comacchio”.
Quante volte per la mia passione avevo affrontato ogni tipo di difficoltà a
rischio della mia vita stessa, quante volte l’avevo maledetta come si maledice
qualsiasi cosa di cui non se ne può fare a meno, anche in quel momento lo feci,
mentre Isoradio visto le condizioni meteorologiche assurde cercava di far
desistere i viaggiatori dall’incamminarsi anche per pochi km; io mi trovavo
a cavallo dell’Appennino tosco-emiliano, uno dei punti più bestiali della nostra
rete autostradale.
Cercai di capire l’origine di così tanta passione e mi rividi per un attimo
poco più che adolescente con Michele, da sempre compagno di caccia e di vita
ed Ivano quando per sparare alle folaghe sul lago di Massaciuccoli le rincorrevamo
con la barca a motore facendo dannare il povero Orazio guardia venatoria dell’epoca.
“ E’ sempre stata la mia vita” dissi nervosamente per giustificare così almeno in parte
la mia irresponsabilità, e le pene nell’affrontare un simile viaggio.
Lo speaker si raccomandava come fa un genitore con un figlio scellerato.
“Ma nella valle è galiverna” risposi a voce alta come se con il meteorologo ci fosse un
contatto visivo “La mia prima, venisse giù anche il demonio, io a Comacchio ci arrivo
sicuramente.”
La galiverna ovvero la nebbia con ghiaccio, un cocktal micidiale per la caccia agli
acquatici nella laguna, in valle gli uccelli vagano senza alcun punto di riferimento
se non i richiami dei cacciatori celati negli appostamenti, in uno scenario dantesco
li vedi comparire e sparire come anime dannate nella foschia densa non dandoti respiro
nemmeno per un attimo, come invece accade quando il campo visivo è più ampio.
Arrivato finalmente in paese dopo non poche difficoltà, alla casa di caccia trovai
ad attendermi come sempre il giovane Fabio, il mio compagno di battaglia comacchiese,
grandissimo cacciatore di anatre, “Domani siamo nel Forno in Fossa Di Porto, il cimitero
dei pazzetti” disse con voce trionfale mentre ci salutavamo calorosamente come sempre,
il resto delle frasi dette da lui in maniera veloce ed eccitata facevano presagire una
tratta veramente speciale.
Di notte, poi, mentre cercavo di dormire, almeno per un po’, il mugghio del corno di Porto
Garibaldi di avviso ai naviganti mi impediva ogni tipo di rilassamento, ma comunque un
suono di un fascino unico, per me che non lo avevo mai udito, da paragonare al richiamo
dei Vikinghi; “Avrò tempo di riposarmi quando sarò vecchio” pensai mentre andavo in ciabatte
alla finestra a controllare la persistenza della nebbia.
L’alba ci trovò nella tina tesi come due corde di violino, un’alba che non sembrava arrivare
mai, nell’attesa avevamo sentito cantare le anatre da richiamo diverse volte, ma senza poter
scorgere niente, a buio potevamo intravedere a malapena l’inizio della stampata, adesso in
lontananza si iniziavano ad udire i primi colpi da gli altri appostamenti, la tensione dovuta
alla consapevolezza di veder sbucare gli uccelli da un momento all’altro era insopportabile,
fortunatamente in quell’istante una ragnata delle anitre ci fece girare già quasi incannati,
due alzavole tempo di comparire erano già morte; mentre si ricaricava altre quattro intraviste
sulle stampe, un secondo, poi l’anatra di sinistra ci avverte, rieccole, le fucilate sparate
a tiro bruciato non dettero alcun scampo alla stupenda congrega. Ora la fucileria si era fatta
più serrata, i primi uccelli grossi furono mestoloni, i maschi dal piumaggio molto colorito
risaltavano anche da morti sulla baratura, dopo di essi qualche germano sporadico, qualche
fischione ed altre alzavole.
Verso la fine della cacciata la migliore scena di una giornata venatoria per me comunque unica,
dalla destra una decina di uccelli mezzani, codoni e canapiglie, senza un minimo cenno di curata
spariscono di spalle, passati alcuni istanti di attesa spasmodica nella speranza di vederli
riarrivare e purtroppo non scorgendoli cercavamo di capire se ci fosse stato qualche motivo
di disturbo, mentre si parlottava ne approfittai per salire sulla baratura per un bisogno
fisiologico, rientrato nella tina dissi a Fabio “Vuoi vedere che ho avuto anche il tempo di orinare?”,
dopo una frazione di secondo dal dietro la sagoma di cinque codoni che di navigo si stavano avvicinando,
ci fece trasalire.
Gli uccelli si erano posati fuori dalla nostra vista, ma anche loro non avevano potuto vedere la mia
sagoma in piedi. Di colpo si fermarono come se avessero avvertito il pericolo mortale, altri attimi,
i maschi si incollarono, “preparati” disse Fabio “ora prendono il volo” detto fatto, “eccoli!” parte
la scarica assassina quattro morti ed un ferito disperso nella pallida foschia.
Alle 16, orario di chiusura venatorio, la nebbia era ancora fitta e sarebbe rimasta così anche per
quella notte, per cui decidemmo di costeggiare l’argine di Boscoforte per arrivare a S. Alberto,
luogo da dove eravamo partiti la mattina alle 4.
La remata di Fabio, costante ed energica, faceva scivolare la barca come su un mare d’olio; durante
il tragitto parlammo delle feste natalizie da poco trascorse, di amplessi e di gioie che solo le donne
ti sanno dare o togliere, ma in modo particolare si parlò di lei: la nostra passione.
Ne parlammo come di un diritto divino spettato solamente a pochi eletti dal Signore, la fortuna di
provare emozioni così intense e pure a contatto con i miracoli quotidiani degli elementi naturali,
niente a che vedere con i paradisi di plastica tanto agognati dall’umanità moderna, finta e becera,
ridotta oramai all’ombra di se stessa.
Il cartello autostradale indicava la barriera di Pisa nord a 3 Km., il viaggio di ritorno era stato
molto più agevole di quello di andata a causa dell’innalzamento in nottata delle temperature “tra poco
sarò a casa” dissi tra me e me “alla fine di una vita intera sono così poche le giornate che sono valse
la pena di essere vissute, te lo immagini se per un po’ di neve, mi fossi privato di una di queste,
non me lo sarei mai perdonato!”
Pensato ciò spontaneamente mi feci il segno della croce.
Ora in lontananza iniziavano ad apparire le luci del casello.
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