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C'e' sempre una prima volta di Sergio Gunnella
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Partimmo che era notte fonda.
Non avrei mai immaginato di incontrare tanta gente nel villaggio di
pescatori e a quell’ora del mattino, per le straducole che si snodavano
fra le case; queste, basse e disadorne, mettevano in bella mostra i loro muri
scrostati di umidità perenne. Ne risultava così una miscellanea monotona di toni
grigi di pioggia e di nebbia uggiosa che alla luce dei fanali della nostra auto
pareva danzassero come spiritelli indiscreti.
Solo di tanto in tanto e qua e là, qualcuna di esse rompeva la monotonia
dell’insieme con le sue facciate dipinte di smaglianti colori: giallo limone,
rosso carminio, blu cobalto. Le persiane apparivano come occhi verdi aperti sui
balconi e sulle strade assolate. Ma a quest’ora del mattino, con le loro palpebre
serrate, vegliavano ancora sui sogni innocenti dei bambini. Di lì a qualche ora
si sarebbero schiuse e, insieme, avrebbero ringraziato l’inizio di un nuovo
giorno.
Guidavamo in silenzio scambiandoci di tanto in tanto un’occhiata, ma questo non
bastava a interrompere il torpore che ci attanagliava dentro: un misto di ansia,
freddo e sonnolenza; tutto ciò di sicuro avrebbe avuto la meglio su di noi, se
in fondo in fondo non ci fosse stata anche una speranza. Cosa fa alzare due
persone a quell’ ora del mattino, in un paese sconosciuto e per giunta con una
temperatura al di sotto dello zero, se non c’è una speranza?
La stessa che accomuna tutti quelli che, come noi, soffrono della sindrome di
Sant’Uberto.
L’illusione di vivere una giornata di caccia meravigliosa e irripetibile, una
di quelle da raccontare agli amici davanti a un buon bicchiere, magari insinuando
in loro un pò di invidia e un pò di ammirazione.
La vecchia vettura smise di sbuffare e s’arrestò quasi al bordo dell’acqua;
sempre in silenzio e senza nascondere un briciolo di diffidenza, ci guardammo
ancora una volta prima di salire sull’esile barchino.
Aramis il barcaiolo ci aspettava seduto su un grosso tronco d’albero. Il
mozzicone di sigaretta gli pendeva da un lato della bocca serrata che s’increspò
leggermente accennando un mezzo sorriso. Era ancora molto buio e all’apertura
della portiera la fioca luce all’interno della vettura appariva –se mai fosse
possibile- come una lucciola in mezzo al deserto del Sahara. Ciononostante
Aramis non ebbe difficoltà a riconoscerci. Dopo meno di un minuto eravamo là,
in mezzo al grande lago.
Il giorno era ancora lontano a venire. L’istinto sarebbe stato quello di
chiedere al barcaiolo in quale maniera avrebbe ritrovato la botte, datosi che
l’ambiente circostante non offriva alcun punto di riferimento, intricato com’era
dal dedalo di canali che si incrociavano tutti uguali fra enormi canneti e –per
giunta- con quel buio. Ma forse lo avremmo distratto e il colore bruno dell’acqua
non consigliava di certo manovre –per così dire- soprapensiero.
A occhio e croce Aramis diede di remo per una buona mezz’ora, prima di arrivare
al primo appostamento dove lasciare il mio amico Giuseppe.
La profondità del lago rendeva nero il colore dell’acqua, ma la sua superficie
tremolante al passaggio del barchino e rischiarata dalla sola luce della luna,
appariva come coperta da un leggerissimo velo d’argento. Vedevo passare veloci
le piante acquatiche che spuntavano qua e là come leggiadre margherite in un
prato irreale, e rabbrividivo al solo pensiero che l’esile imbarcazione potesse
rovesciarsi; ma subito mi rincuorava il rumore del falasco che strofinava le
fiancate del barchino e che mi sfiorava di tanto in tanto il viso già sferzato
dalla gelida brezza notturna.
Aramis eseguiva ogni movimento in assoluto silenzio. Si udiva soltanto lo
sciacquio cadenzato dell’unico remo che ogni tanto accompagnava il verso lontano
di un animale dietro le cannicciole; allora il barcaiolo ci faceva un gesto col
viso come per informarci che l’ alba sarebbe stata proficua. I suoi occhi
brillavano nell’oscurità così come il mozzicone di sigaretta stretto al lato
della bocca e che adesso pendeva all’ingiù, colmo com’era di cenere. Non v’era
altra luce, se non quella della luna.
"O cara luna al cui tranquillo raggio danzan le lepri nelle selve,
e duolsi la mattina il cacciator che trova l’orme intricate
e false e dai covili error vario lo svia. Salve o benigna, delle
notti reìna!"
Fu guardando la luna nel cielo che mi vennero in mente i versi de “La Vita Solitaria”
di Leopardi. Ed è affascinante riconoscere alla mente la straordinaria facoltà che
possiede di poter vagare da una parte all’altra del sapere, senza mai scontrarsi con
epoche, vicende e personaggi tanto diversi gli uni dagli altri.
Difatti adesso -con un salto di svariati lustri- il pensiero si rivolse alle gesta dei
quattro moschettieri facendomi ricordare che l’unico protagonista al quale Alessandro
Dumas salvò la vita a conclusione del suo romanzo, fu proprio Aramis. Già perché per
uno che porta un tale nome come il nostro amico barcaiolo, sentirsi parlare di
moschettieri, Richelieu, re e cardinali, è cosa che lo accompagnerà fatalmente per
tutta la vita.
Come chiamarsi Alice: vorrei trovare uno, dico uno, che non ci aggiunge ogni volta
“nel paese delle meraviglie”!
E così è per chi ha l’avventura di chiamarsi Giovanni per il quale seguirà
immancabilmente “dalle bande nere”, Cosetta che sarà per tutti l’ eroina de “I
miserabili” e Girolimoni , “er mostro de Roma”!
Perché così va il mondo.
Ecco che, lasciato Giuseppe nella sua botte e man mano che ci allontanavamo doppiando
l’ultimo baluardo di canne palustri, mi resi conto di quanto fosse bella la valle con
i suoi profondi silenzi.
Anch’ io raggiunsi il mio posto; salutai il barcaiolo e rimasi solo. Solo in compagnia
con la mia eccitazione: avrei sparato? Il tiro sarebbe stato difficile? Avrei dovuto
appostarmi verso est o verso ovest?
Quella era la mia prima esperienza di caccia alla selvaggina di valle e tutto mi
appariva così difficile! Non dovevo assolutamente perdere la calma.
"Schiacciati per benino dentro la botte e resta immobile come una statua. Solo quando
sarai in grado di capire se l’uccello che arriva ha i colori del maschio o della
femmina, solo a questo punto sarai certo che esso è a tiro utile. E allora spara
anticipandolo di almeno un metro e....auguri!" mi aveva raccomandato Giuseppe prima
della nostra partenza da casa....E se te lo diceva lui, potevi crederci.
Giuseppe è un vero cacciatore, un appassionato pieno di volontà e di esperienza, ma
-soprattutto- è un amico vero. Un uomo intellettualmente onesto con il quale è
impossibile per chiunque non fare amicizia. Trovo in Beppe la qualità non comune
dell’umiltà unita a quella straordinaria del saper “fare tutto e bene”.
Qualsiasi appezzamento di terreno con lui diventa un giardino, tanto è abile nel
governare la terra e accudirne i frutti. E’ sempre disponibile per ognuno e non gli
importa del perché lo si chiami in aiuto. Ne sa di giardinaggio come di muratura,
salda il ferro e ripara qualsiasi elettrodomestico. Il camino della nostra tavernetta
di casa è opera sua, come tanti altri “lavoretti” nei quali la sua collaborazione è
stata indispensabile. Un uomo intelligente e preparato con il quale si può discutere
di qualsiasi argomento. E’ bello avere un amico come Beppe.
Adesso guardavo davanti a me, là dove l’acqua diventava un tutt’uno con il cielo. Il
chiarore di un’alba che pareva non dovesse sopraggiungere mai, già faceva capolino
all’orizzonte. E mi gustavo il rumore del silenzio.
Più di una volta sobbalzai al tonfo nell’acqua di un tuffetto e al grido dello svasso
che senza ritegno mi offriva il fianco a pochi metri.
Poi, con la complicità della magica atmosfera che solamente la valle sa dare, mi buttai
a capofitto nel profondo dei miei pensieri.
Passarono due, dieci o trenta minuti (chi può dirlo quando si è soli con se stessi e
assorti nelle proprie riflessioni?) dove la sonnolenza ebbe il sopravvento sull’aria
pungente del primo mattino.
Un battito d’ali scosse all’improvviso il mio torpore: rapido, saettante e nervoso.
La prima moretta tagliò il filo dell’acqua rubandomi le prime due fucilate; queste
echeggiarono per tutta la valle come l’eco del tuono di un temporale di fine estate
rimbalzando fra il cielo, l’acqua e le mie orecchie.
Quella moretta fu l’ambasciatrice di altri innumerevoli uccelli che in questa mattinata
indimenticabile solcarono l’arco di cielo di quel mio paradiso.
Quando Aramis ritornò a recuperare me e Giuseppe il sole
era ormai alto. Guadagnando la riva ci accorgemmo di quanto era mutato l’aspetto del
paesaggio: così misterioso e austero nella notte, così familiare e ammicchevole alla
luce del giorno!
Curva dopo curva la vecchia auto ripassava fra le case basse dai muri scrostati, ma fra
noi il silenzio che ci aveva fatto compagnia nel buio dell’andata era scomparso.
Ciascuno di noi sovrapponeva la sua storia a quella dell’altro, ad alta voce.
E più ci si immedesimava nella propria verità, più il tono della voce aumentava di
volume: non sarà per caso che i cacciatori ciarlano sempre così rumorosamente per
superare il clamore delle loro schioppettate?
Ogni tanto lo sguardo cadeva a terra, fra gli stivali. Fissavamo questa moretta o quel
moriglione ringraziandoli in cuor nostro per averci fatto sognare con il loro volo. La
festa sarebbe continuata l’indomani in cucina e sarebbe rimasta attaccata ai nostri
ricordi fino all’appuntamento del prossimo anno.
Allora il gioco ricomincerà. Altri uccelli sacrificheranno la propria esistenza in nome
della raccolta dei frutti che ogni stagione porta con sé; le stesse stagioni che
accompagnano l’arco della vita di tutti noi quanti siamo, e per tutti gli anni che
l’Onnipotente avrà intenzione di regalarci.
Un gioco senza fine il cui destino è quello di durare nel tempo.
Perlomeno fino a quando il nostro cuore dimostrerà di essere in grado di palpitare
ancora per queste straordinarie emozioni.
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