I racconti dei cacciatori di acquatici
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  Durante la mia adolescenza ho avuto alcuni maestri di caccia che con i propri consigli mi hanno dato insegnamento e con i loro modi di cacciare mi hanno persuaso a praticare per tutta la vita la caccia agli acquatici.
Correva l’anno 1965, allora frequentavo la prima superiore, ed era il giorno tre di ottobre; poiché il giorno successivo era la ricorrenza di S. Francesco, Patrono d’Italia, per la quale era prevista una festività scolastica, chiesi a Giacinto se fosse stato solo nell’alba dell’indomani ed, in tal caso, se avesse acconsentito di prendermi con lui in botte.
Borbottò per un attimo, poi mi diede una risposta affermativa.
v Giacinto era un uomo sulla settantina, di tempra e di struttura arcigna, molto forte, ma con un carattere assai generoso.
Egli abitava nello stesso palazzo dove abitavo io, ovvero i miei genitori erano suoi inquilini.
Nonostante l’età, che non dimostrava affatto, svolgeva un’attività di commerciante e gestiva un negozio dove vendeva di tutto: materiale elettrico, fornelli e forni da cucina, bombole di liquigas, biciclette con relativi accessori e pezzi di ricambio, mentre nel retrobottega gestiva l’attività di vetraio e “dulcis in fundo” vendeva fucili da caccia, buffetterie e cartucce, che caricava ad una ad una in modo artigianale.

A fine estate di quell’anno mi aveva regalato un paio di stivaloni Superga, di una misura intermedia fra quelli alla coscia e quelli al ginocchio, che costituivano il compenso per l’aiuto datogli, durante i mesi di vacanza scolastica, nella fabbricazione delle cartucce.
Il mio compito era quello di mettere manualmente in ciascuna cartuccia il piombo, servendomi del dosa piombo e di chiuderle con un cartoncino, che indicava la numerazione specifica dei pallini; infine, dopo che lui le aveva orlate, la mia mansione si esauriva nel sistemare le cartucce nelle confezioni, in scatole da venticinque ciascuna.
Le sue polveri preferite erano la Jk6 e la Rottweil, i bossoli di cartone tipo due, le capsule tipo Sur, le borre di feltro di marca Iris e i pallini di piombo nero marca Aquila.

Contrariamente a molti cacciatori che frequentavano il negozio, Giacinto praticava con passione la sola caccia di valle e assieme ad altri soci gestiva un chiaro artificiale, denominato “Le Vallette”, che esiste ancora oggi e che si trova al confine fra la provincia di Ravenna e quella di Bologna, in prossimità del Canale dei Mulini vicino all’abitato di Bubano.
Veniva inoltre invitato, ogni volta che si praticava, alla caccia del rastrello alle folaghe nella Valle del Mezzano: quest’ultima era situata in una porzione delle Valli di Comacchio, all’interno delle quali occupava i due terzi dell’intero complesso vallivo, ma purtroppo alla fine degli anni sessanta è stata bonificata completamente.

“Le Vallette” erano costituite da una vasca, che aveva avuto negli anni addietro la funzione di contenitore dell’acqua del canale, da utilizzarsi come riserva per i momenti di assoluta siccità, al fine di rendere sempre funzionante il lavatoio pubblico comunale.
L’estensione originaria del bacino idrico era di circa otto ettari, ma il chiaro da caccia venne poi costruito successivamente in uno spazio di circa tre ettari scarsi.

La notte fu per me quasi completamente insonne a causa della frenesia che mi aveva pervaso.
Quando mia madre venne ad aprire la porta della mia camera per svegliarmi e per invitarmi a fare colazione, io ero già vestito e pronto. Nella piazza la torre civica rintoccava le quattro e Giacinto uscì di casa trovandomi pronto sul pianerottolo delle scale con gli stivaloni in mano.
Scendemmo a piano terra, nell’androne del palazzo e salimmo sulla sua millecento.
Lungo il corso passò davanti al forno di Mario, che era il suo socio di botte, si fermò lasciando l’auto in moto e bussò alla saracinesca, quasi completamente abbassata.
Dopo aver alzato il bandone, si presentò Mario e Giacinto gli chiese di tagliare due pezzi di pizza con i ciccioli, poi soggiunse che li avrebbe pagati nel pomeriggio solo se fosse tornato “boaro”, come era nei patti, puntualizzando infine che con un compagno occasionale di caccia come me, anche se non munito di fucile, la giornata sarebbe stata senz’altro fruttifera o fortunata.
Mario mi guardò e mi intimò, con il dito indice alzato, di seguire attentamente ogni gesto di Giacinto in quanto questi era uno dei migliori cacciatori di tinella del comprensorio e al solo guardarlo a cacciare già si traeva un insegnamento prezioso.

Ripartimmo e poco prima dell’arrivo Giacinto si fermò presso una cascina abbandonata, che si trovava in prossimità del canale, dove recuperò le anatre germanate da richiamo tenute in un recinto, dopo di che proseguimmo per il chiaro, distante solo pochi minuti.
Parcheggiò l’auto in una carraia, che lo fiancheggiava pur rimanendo ad una distanza laterale di circa cinquanta metri.
Ci incamminammo e quando raggiungemmo il lato dove erano ubicate le botti girammo a sinistra, arrivando sull’argine del chiaro.
Percorremmo l’argine per poco meno di cento metri e giungemmo ad una penisola stretta che conduceva, passati una trentina di metri, verso il centro dello specchio d’acqua nel punto dove erano ubicate le botti gemelle.
Giacinto mi aprì la botte togliendo il coperchio di lamiera e lo sistemò dietro, in posizione verticale e parallela agli arbusti di canna palustre; mi fece poi accomodare nella botte di sinistra ed infine aprì la sua, che si trovava sul lato destro, ponendovi all’interno il fucile ed il tascapane.
A questo punto tornò indietro verso la riva del chiaro e salì sul battello per posizionare il gioco degli stampi e le anatre da richiamo.
Già alla vista di quell’ombra scura, che scivolava silenziosa sull’acqua mentre si avvicinava alle botti, sentivo una sensazione interiore di misterioso e piacevole sgomento. Giacinto arrivò a circa quindici-venti metri dalle botti e iniziò a fare il gioco, composto da una ventina di stampi, adagiandoli nell’acqua delicatamente uno alla volta senza sprigionare alcun rumore di tonfo e posizionando infine le anatre da richiamo.
Era ancora buio e, nonostante mi sforzassi, non riuscivo a percepire l’esatta disposizione degli stampi, in quanto intravedevo a malapena solo i primi simulacri, quelli più prossimi alla botte.
Dopo alcuni minuti Giacinto arrivò e si addentrò nella sua postazione.

Le due botti erano interrate e la loro forma era ovale; erano inoltre disposte per il lungo, in modo tale che, stando seduti, se si stendevano completamente le gambe, i piedi non andavano a toccare il bordo della parte opposta;il seggiolino era comodo e regolabile, in quanto costruito in modo identico a quello di un’altalena.
All’esterno erano circondate da una fitta barratura, ad eccezione della parte antistante il gioco.
Il germano da richiamo emetteva a brevi intervalli la sua “paciata” e le due femmine, a turno, gli rispondevano in modo pacato, terminando con un sommesso borbottio.

Giacinto cominciò ad intonare il fischio del maschio di alzavola, ad intervalli di una manciata di secondi ciascuno e dopo tre o quattro chiamate, fece il verso della femmina, che imitava a bocca, senza l’ausilio di alcuna trombetta, in maniera assolutamente perfetta ed impeccabile.
Il mio stato d’animo era immerso in una velata beatitudine e ad ogni rumore che udivo chiedevo a Giacinto, a bassissima voce, cosa poteva essere stato.
Alcune gallinelle nel canneto avevano cominciato a richiamarsi e al loro coro si associavano di tanto in tanto alcuni porciglioni, quando ad un tratto si sentì di fronte a noi la “ciccata” di una folaga.
Mentre cercavo di aguzzare la vista, per un attimo la intravidi in quella parte del chiaro dove il buio era meno intenso per la mancanza di ombre che si riflettevano nell’acqua.

Feci cenno a Giacinto, indicandogli la posizione dove avevo intravisto il rallide e lui sottovoce mi rispose che l’aveva già notata ancor prima che emettesse il suo verso. Aggiunse, sempre a fil di voce, che bisognava lasciarla stare, perché stava fungendo da richiamo vivo per le anatre, che avrebbero certamente creduto ancora di più al gioco.
Verso est, in direzione del mare, si cominciava a notare nel cielo stellato quella piccola vela chiara, rassomigliante alla via lattea, che nelle giornate limpide e serene precede i chiarori dell’alba piccola; le anatre da richiamo iniziarono ad intonare la cantata a vuoto per salutare il nuovo giorno che stava per nascere.
Giacinto riprese a fischiare, quando ad un tratto le anatre, quasi in maniera simultanea, emisero una cantata diversa, più convinta ed anche più insistente, ma pur sempre molto garbata.
Giacinto mormorò che c’erano degli uccelli in ala ed intonò alcune battute di fischio, dopo di che chiamò a bocca con il verso della “pazzettina” ed infine mi sussurrò di stare fermo, come pietrificato, in quanto aveva notato che degli uccelli si erano abbassati per buttarsi a “mano stanca”, il che voleva dire dalla mia parte.

Che rabbia, non ero riuscito a vedere un bel niente, avevo solo sentito per un attimo la leggera soffiata del volo basso, quando gli uccelli erano andati a prendere vento. Il mio sguardo era fisso dalla parte sinistra del gioco, che ormai intravedevo quasi completamente, ma di anatre non riuscivo a vederne alcuna.
L’alba piccola aveva già incominciato a prendere il sopravvento sulla notte ed ecco che, dopo un minuto, per me lungo più di un’ora, vidi finalmente un “macchioncino” scuro e, pur non potendo percepire nitidamente di quanti capi fosse composto, in quanto era molto serrato e compatto, mi resi conto che era senz’altro formato da un buon numero di esemplari.

Lo vedevo che si muoveva lentamente, in quanto si intravedeva la scia chiara sull’acqua, che lasciava dietro di sé e notai che si stava dirigendo verso la femmina da richiamo, posizionata sul mio lato, la quale borbottava a voce bassa, pacata e a monosillabi, quasi volesse convincerli ad avvicinarsi ad essa sempre di più.
Con la coda dell’occhio destro mi accorsi che Giacinto si stava preparando al tiro spianando la sua doppietta Toschi, soprannominata in Romagna “la Sandrona”, appellativo quest’ultimo derivato dall’armaiolo che l’aveva costruita, il famosissimo Alessandro Toschi, secondo solo al magnifico Giacinto Zanotti.

Io avevo il cuore in gola che mi bloccava il respiro e fissavo senza batter ciglio gli uccelli, quando sentii partire il primo sparo e subito dopo il secondo.

Non vidi più nulla in quanto fui accecato dalla fucilata sparata nell’acqua. Sentii lo sciacquio di un uccello che stava scappando ed io chiesi se si trattava di un ferito, ma Giacinto mi precisò che era la folaga che ciabattando era scappata verso l’oscurità del canneto.
Giacinto con un balzo uscì dalla botte con il fucile in mano per vedere meglio dall’alto, poi mi fece cenno di fare altrettanto e mi disse : “Li vedi? Sono tutti là fermi sull’acqua”.
Io non riuscivo a capire quanti fossero e lui aggiunse. “Saranno sei o sette”. Esclamai se erano alzavole e Giacinto con voce fiera confermò e ripeté : “ Sì, sono pazzetti e ci sono rimasti tutti; hanno proprio fatto bene perché si sono raggruppati alla distanza giusta, corrispondente al fiore della rosata e si sono infilati benissimo proprio nell’attimo dello sparo”.

Lo supplicai di andarli a raccogliere subito ed egli accettò l’invito, recandosi frettoloso al battello, dove lo vidi inarcarsi in modo energico, spingendo sul paradello. In un batter d’occhio li raccolse e ritornò a riva.
Lo sentivo che si dirigeva verso le botti con il suo passo greve, che affondava nel fango e si presentò a me tenendoli tutti per il collo con la sua grande mano destra, mostrandomeli con fierezza.

“Sono nove!” disse. Poi aggiunse “E’ incredibile, mai successa una cosa simile, sì sono proprio nove!”. Mi spiegò che sette ci erano rimasti di polso, perché quando li raccolse erano tutti concentrati in uno spazio circoscritto e due li aveva colpiti nell’alzata, in quanto erano alcuni metri più distanti; infine li pose tutti vicino all’orlo della mia botte.
Li presi in mano uno per volta e li accarezzai cercando di pettinare al meglio le piume scomposte e pensavo che fossero tutte femmine, ma lui mi spiegò che non avevano ancora completato la muta. Ormai era la levata del sole e non si era visto più niente, ma ecco che notai la presenza della folaga che era uscita allo scoperto dal canneto di un paio di metri.
Giacinto con la piva intonò due ciccate e le anatre chiamarono la folaga senza cantata, ormai era cotta; in un baleno si diresse nuotando come un piroscafo verso il gioco, ondeggiando con la testa in avanti e indietro.
Era a tiro, Giacinto mi pose la doppietta e mi disse a bassa voce che era mia; aggiunse di stare attento e di mirare nel punto della linea di galleggiamento e per ultimo si raccomandò che al momento dello sparo stringessi energicamente la doppietta contro la spalla.
Mi mancava il respiro ed avevo il cuore che mi strozzava la gola, premetti il grilletto e non vidi più nulla.
“Bravo” - esclamò Giacinto - “L’hai avuta e l’hai gelata di botta”. Io ero al settimo cielo, avevo sparato il mio primo colpo di fucile e per di più lo avevo sparato in botte, anche se con un’umile folaghina.

Ancora oggi, ogni qual volta raccolgo questo uccello, sento per un attimo un senso di compiacimento, perché fu la mia prima cattura, ed inoltre mi balena il ricordo di quell’episodio.
Passò ancora un’oretta, che mi sembrò una manciata di minuti, quando Giacinto sentenziò che era giunta l’ora di rincasare in quanto nè il chiaro del Conte Manzoni, nè il chiaro del Conte Raffi, posizionati in zone limitrofe, avevano sparato; inoltre non si era visto nessun altro volo.
Aggiunse che il risultato ottenuto, derivato dal comportamento che avevano avuto gli uccelli, era da ritenersi più che soddisfacente.

Prima di partire mi fece notare la differenza che c’era fra i pazzetti maschi rispetto a quelli femmine ed evidenziò che nei maschi si vedevano piccoli punti scuri nel petto, i quali si sarebbero poi sviluppati e, a pigmentazione completata, avrebbero assunto una tonalità nera, nel petto che nel frattempo sarebbe diventato biancastro.

Arrivammo a casa e mia madre era già sotto l’androne che ci aspettava; Giacinto le mostrò fiero il mazzo di uccelli e, poiché aveva voglia di mangiarsi un bel risotto - così disse - trattenne la folaga assieme a quattro alzavole, allungando a mia madre le altre cinque.
Poi sorridendo esclamò: “ Augusta, ritieniti fortunata, perché Aldo diventerà senz’altro un Cacciatore di Valle...come lo fu il tuo povero zio”.

Quel carniere passò alla storia locale, nel senso che ancora oggi a distanza di quasi quarant’anni, i cacciatori di Massa Lombarda ricordano le gesta di un tale Giacinto Marri, soprannominato Iazent, che in valle con due soli colpi riuscì a fermare la bellezza di nove alzavole in una sola volta.
In quell’occasione io ero con Lui!

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