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Eravamo in novembre, circa trenta anni fa, quando arrivai là per la prima
volta, dopo un viaggio durato più di cinque ore a causa del battello che
trasportavo sul tetto dell’auto, il quale, con i sacchi pieni di stampi e
la cassetta contenente le anatre da richiamo stipati al suo interno,
costituiva un bagaglio indispensabile, ma di notevole ingombro e di
sicuro rallentamento all’andatura dell’automobile.
Gli altri due compagni, Sergio e Renzo, non fecero altro che parlare del
lago, del tempo ideale, del passo autunnale, delle botti galleggianti e
dei due cucci sistemati a riva.
Arrivammo che era sera e lasciammo alla nostra destra l’abitato di Lesina
per costeggiare il lago ed inoltrarci lungo l’Isola, un lembo di macchia
mediterranea, che si interpone fra il mare ed il lago e che è percorsa da
una strada di sabbia battuta, costruita fra le dune.
Arrivammo in una casetta che si trovava in riva al lago e che anticamente era
abitata da pescatori.
Prima di pensare a rifocillarci per il lungo viaggio, scaricammo tutte le
attrezzature e sistemammo le anatre da richiamo nell’apposito recinto; poi
entrammo in casa dove Sergio si mise ad accendere il fuoco del camino, e
mentre faceva ciò non finiva più di raccontare, vuoi per l’entusiasmo, vuoi
per l’emozione, vecchie avventure di caccia avvenute proprio in quel posto,
di cui lui era stato partecipe. Dall’altro lato della stanza, Renzo, che nel
frattempo aveva preparato la cuccuma del caffè e riempito di cartucce la sua
cartucciera, ogni tanto lo interrompeva per raccontare a sua volta altre storie,
sempre riferite al Lago di Lesina, che avevano visto protagonista quest’ultimo
e che, a suo dire, erano sicuramente più avvincenti di quelle narrate da Sergio.
Io, in mezzo a loro, me ne stavo zitto ad ascoltare i loro discorsi pensando al
“Lago”, con lo stesso sentimento che prova un bambino quando l’indomani
deve andare per la prima volta in gita, o sperimentare un gioco nuovo.
Il lago!!! Ma come era questo lago, di cui si era tanto parlato durante il
viaggio. Bisognava vederlo, toccarlo con mano e così mi avvicinai sulla soglia
della casetta e mi incamminai lungo il sentiero, arrivando al canneto che si
ergeva lungo un piccolo canale, oltrepassato il quale, dopo un ponticello di
legno, mi trovai improvvisamente di fronte al lago.
Il silenzio ed il buio imperavano su tutto, sulla sommità opposta si notavano
i bagliori dell’abitato di Lesina, in lontananza si udivano dei cani abbaiare
e saltuariamente si potevano sentire degli strani versi, dei pigolii, delle
strida che a volte sembravano rassomigliare a dei lamenti umani: erano i
porciglioni che pasturavano lungo la riva melmosa del lago, frastagliata
dai giunchi.
Innanzi a me la vasta distesa lattiginosa dell’acqua del lago era a volte
interrotta da scuri reticolati, che lo attraversavano ad una distanza, l’uno
dall’altro, di circa trecento metri: erano le “paranze” delle reti da pesca.
Mi sedetti sul terreno adiacente la riva e pensai all’indomani, quando avrei
finalmente scoperto e vissuto l’esperienza della caccia nel lago; dopo un attimo,
preso dall’entusiasmo, decisi di rincasare, quasi a voler accelerare inconsciamente
il tempo che mi separava dal giorno successivo.
Gli amici erano già coricati ed erano intenti a pianificare le strategie da
adottare in relazione al tempo, che, se si fosse mantenuto di “bonaccia”, ci
avrebbe costretti ad alzarci in anticipo di un paio di ore per poter sistemare
le due botti galleggianti, stampare il gioco e praticare per alcune ore di buio
la caccia alle folaghe.
Sergio evidenziò che se invece ci fossimo svegliati con nubi cupe e venti forti,
l’unico modo per fare caccia sarebbe stato quello di utilizzare i due cucci a
riva; poi aggiunse che era proprio in questo ultimo frangente che lungo le coste
del mare transitano a stormi i palmipedi, gli eterni nomadi del cielo, e poiché
il lago offre loro ospitalità e pastura, nell’alba il cacciatore potrà notarli
sfilare sul pelo dell’acqua del lago, raggruppati in tanti piccoli branchi,
simili a sagome scure filanti, che volteggiano nell’aria: si tratta degli uccelli
nuovi di calata, che, proprio perché “nuovi” credono maggiormente ai giochi.
Il giorno tanto sospirato arrivò alle porte, Sergio aprì la finestrella della
casetta e scrutò il cielo: “Tempo infame, pioggia intensa e vento, ma per noi
cacciatori sarà un tempo adorabile. La burrasca” - aggiunse - “potrebbe riservarci
qualche bella sorpresa”.
Il vento rinforzava mulinando e Renzo, mentre sorseggiava il caffè, spiegò che
le botti galleggianti erano senz’altro sommerse ed inservibili per il forte vento,
che alimentava il moto ondoso del lago e quindi ci saremmo dovuti preparare nei
due cucci a riva, che, fra l’altro, presentavano il vantaggio di essere
completamente sottovento, in quanto la burrasca veniva da tramontana.
Ci vestimmo e, con i fucili a tracolla e gli ombrelli cerati in mano, uscimmo allo
scoperto.
La sferzata del vento fu immediata e maligna e la pioggia, che sembrava nebulizzarsi
nell’aria, veniva da tutte le parti, ma l’entusiasmo ci fece abituare subito a tali
condizioni avverse e non provammo alcun disagio nello stare con il volto bagnato.
Appena arrivammo sulla riva del lago ci dividemmo: io andai con Sergio nel cuccio che
si trovava alla destra del sentiero e Renzo si diresse, da solo, verso l’altro che
si trovava alla sinistra.
Dal punto in cui ci separammo le distanze verso i rispettivi appostamenti erano
di circa trecento metri.
Arrivammo al cuccio che era costituito da un cassone in legno completamente
scoperto, posto all’estremità di una stretta punta naturale di terra, che avanzava
per circa trenta metri verso il largo. Un folto canneto, che si ergeva sotto riva,
forniva un riparo naturale alla tormenta incalzante.
Sergio lasciò il battello a riva, sostenendo che il vento forte rendeva impossibile
l’uso del natante per posizionare il gioco, in quanto lontano dal cassone, già ad
una cinquantina di metri di distanza, il forte vento avrebbe reso ingovernabile il
battello stesso, il quale sarebbe stato sospinto in modo violento dall’altra parte
del lago ed il moto ondoso avrebbe accentuato il suo ribaltamento, non appena si
fosse girato con il fianco alle onde.
L’amico riferì che davanti all’appostamento, per circa cento metri, la profondità
dell’acqua era disomogenea, oscillando fino ad un massimo di mezzo metro e che il
fondo del lago era compatto. Abbracciammo ognuno un sacco di stampi e decidemmo di
disporre il gioco in un unico gruppo, molto fitto e compatto, posizionato proprio
davanti al cassone; sistemammo inoltre i richiami vivi, ponendo i due germani
all’estremità del gioco e le quattro femmine distanti circa dieci metri le une
dalle altre, nello spazio inferiore che si interponeva fra il cassone ed il gioco
stesso.
Mentre ci sistemavamo nel cassone e alla nostra sinistra, verso il promontorio del
Gargano, si cominciavano ad intravedere i primi leggeri chiarori, che precedevano
l’alba, Sergio commentò che sarebbe stata un’alba molto lunga e più scura del solito.
Nel cassone stavamo abbastanza comodi in quanto avevamo alzato il soffietto,
costruito con un pezzo di telone da camion, che ci riparava la testa e le spalle,
mentre gli stivali alla coscia ci proteggevano quasi totalmente dagli spruzzi della
pioggia.
Sergio spiegò che, nel caso in cui si fosse abbattuto un uccello, occorreva andare
subito a raccoglierlo, in quanto il vento lo avrebbe trascinato verso il largo e mi
rassicurò, ancora una volta, che per circa cento metri lo specchio d’acqua antistante
era tutto “stivalabile”.
Mentre il chiarore stentava ad avanzare nel fosco cielo, noi cominciammo ad azionare
i nostri fischi: Sergio faceva l’alzavola maschio ed io facevo, alternativamente, il
canto del codone maschio e del fischione maschio.
Con una tale burrasca nell’aria le anatre da richiamo cantavano a più non posso, ma
ad un tratto la cantata si fece più serrata e rabbiosa, perché erano passati cinque
uccelli, che non riuscimmo ad identificare, i quali, transitando di fianco verso
destra, sorvolarono le reti da pesca, oltrepassandole. Entrambi imprecammo per
l’occasione perduta e demmo la colpa alla cantata delle anatre, che era stato troppo
sgarbata e violenta, ma ciò era del tutto normale, con una burrasca simile in atto.
Riprendemmo a fischiare ed ecco che tre uccelli grossi ci vennero incontro a fior
d’acqua e si buttarono una quindicina di metri fuori dal gioco. Dalla conformazione
che avevano assunto, una volta posati, non avemmo dubbi: erano fischioni e senza più
fischiare li osservammo mentre di vogata si dirigevano verso il germano di sinistra
(dalla mia parte), con il collo abbassato, quasi a lambire l’acqua con il becco.
Sergio diede il via e fece la conta fino a tre, dopo di che si udì nell’aria un
unico sparo simultaneo, a seguito del quale “ci rimasero tutti”.
Scesi immediatamente in acqua per recuperarli e raccolsi il terzo che già si trovava
ad una distanza di oltre venti metri fuori dal gioco.
Mentre stavo ritornando, quando ero a circa due o tre metri dal cuccio, sentii
Sergio che mi intimò di fermarmi e di non muovermi; subito dopo sparò due colpi e
mi invitò ad andare a raccogliere altri due uccelli, che erano due moriglioni.
Finalmente rientrai nel cassone, anche un po’ stremato e ricominciammo a fischiare:
era già passata l’alba, ma la visibilità non era ancora nitida, quando sentimmo
una scarica di tre colpi dalla parte di Renzo, seguiti da altri due colpi di ribattuta.
Passarono alcuni minuti e dalla sinistra notammo arrivare una palla di alzavole,
costituita da circa una decina di capi; mentre si avvicinava, Sergio si raccomandò
che se fosse arrivata a tiro, avremmo dovuto tirare al volo, solamente al suo
comando, in quanto non era più il momento della buttata.
Le alzavole ci passarono di fianco, ad un centinaio di metri di distanza e noi
fischiammo entrambi, imitando il loro canto; esse girarono verso il largo e poi ad
un tratto tornarono indietro verso di noi.
Con il vento sul petto, ad una trentina di metri, accennarono ad un maggior
rallentamento e quando arrivarono all’estremità del gioco, le prime rallentarono
al punto tale da farsi quasi superare da quelle dietro. Sergio diede il via e
facemmo fuoco, fermandone cinque.
Avevamo finito di sparare che le superstiti erano ancora a tiro e stavano arrancando
verso l’alto, ribaltandosi all’indietro contemporaneamente, sospinte dal vento. Ci
guardammo in faccia soddisfatti e andammo in acqua a raccoglierle; ritornati al cassone
decidemmo di aspettare ancora una mezz’ora prima di tornare a casa a rifocillarci e ad
asciugarci un po’.
Ritenendoci già soddisfatti avevamo perso un po’ la concentrazione, fino al punto che
mi accorsi improvvisamente della presenza di un mestolone, incoppato sul gioco, che
non avevamo visto nella fase di avvicinamento. Mi alzai prontamente e di stoccata lo
fermai.
La pioggia era cessata, il cielo si era rotto facendo filtrare i raggi del sole che
sembravano fasci di luce di riflettori, il vento stava calando e decidemmo di tornare
a casa per riposarci un paio di ore, perchè poi saremmo dovuti andare a sistemare le
botti galleggianti prima di pranzare.
Mentre camminavamo lungo la riva del lago, notammo che dalla parte opposta anche
Renzo ci stava venendo incontro con un mazzo di uccelli in mano, quasi ci fossimo
dati appuntamento: ci scambiammo i commenti, che erano tutti di soddisfazione per
il risultato conseguito. Renzo teneva in mano tre fischioni e due codoni; io e Sergio
rimanemmo un po’ stupiti, in quanto avevamo sentito una sola scarica di tre colpi, alla
quale erano seguiti due colpi di ribattuta.
L’amico soddisfatto ci riferì che aveva creduto al gioco un branchetto di sei, composto
da quattro fischioni e da due codoni.
A casa era arrivato Beppe il pastore, che ci accese il fuoco e ci invitò a mangiare
un pezzetto di caciocavallo con una fetta di pane.
Ero felice, perché avevo assaporato il lago e dopo quella esperienza avevo rafforzato
il mio convincimento che la caccia agli acquatici era l’unica e vera grande passione
della mia vita.
Il vento stava bonacciando sempre di più, il sole era uscito completamente allo
scoperto.
Dalla soglia della casetta guardai verso la tavola che era sotto la tettoia,
ammirando ancora una volta quei sedici corpi lì distesi e composti; mi avvicinai,
li accarezzai e mi sentii ancora più fiero di aver potuto attingere da madre
natura una parte dei suoi meravigliosi frutti.
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