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A caccia in Ukraina di Giuseppe Ambrosino
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Dopo tante battute di caccia effettuate in Italia, dalle paludi di Zapponeta e Trinitapoli, a quelle del Veneto,
tra Portogruaro e Grado, dai fiumi della Campania e della Puglia, mi decisi a effettuare un salto di qualità e di
provare una esperienza all’estero. Mi misi in contatto con diverse agenzie di viaggio, ma tutte pretendevano un
numero minimo di cacciatori. Io ero solo, in quanto i miei amici di caccia abituali, non avevano la possibilità
economica di affrontare una battuta di caccia all’estero.
Dopo tante ricerche e telefonate, riuscii a trovare un’agenzia che organizzava viaggi in Ukraina agli acquatici
e poiché uno dei partecipanti aveva declinato la sua disponibilità c’era un posto libero. Non mi persi d’animo,
anche se non conoscevo nessuno, e dopo varie traversie per ottenere l’invito dal governo Ukraino, finalmente il
12 agosto, raggiunsi l’aeroporto di Fiumicino.
Lì trovai una folla immane in partenza e per individuare chi erano gli altri partecipanti alla battuta, tutti
provenienti dall’aeroporto di Brindisi, ci misi non poco. Ma finalmente li trovai e feci subito amicizia. Dopo
aver disbrigato le formalità di imbarco, soprattutto per le armi, finalmente alle 19,00 salii sull’aereo che mi
avrebbe portato all’aeroporto di Kiev.
Il viaggio fu piacevolissimo, anche perché le persone con cui avevo fatto amicizia erano simpaticissime e subito
familiarizzammo tanto che sembrava ci conoscessimo da una vita.
Come Dio volle finalmente atterrammo all’aeroporto internazionale di Kiev. Ci attendeva un interprete , che aveva
anche il compito di sdoganare le armi.
Lì cominciarono i miei primi guai. Per un errore dell’organizzazione, il numero di matricola del mio fucile non era
stato riportato sul passaporto collettivo. La polizia aeroportuale non volle sentire ragioni, pur avendo io esibito
il mio regolare permesso di esportazione delle armi, e mi sequestrò il fucile!
E’ inutile dire che avevo la morte in corpo, anche se mi assicurarono che dove ci saremmo recati per le battute di
caccia l’organizzazione mi avrebbe fornito un fucile di ricambio.
Magra consolazione! Erano anni che sparavo con quel fucile a cui avevo anche modificato il calcio per adattarlo meglio
alle mie esigenze e avevo delle cartucce che con quell’arma in Italia si erano dimostrate efficacissime. Nervoso come
un diavolo, preoccupato per l’esito non solo della caccia, ma anche per la restituzione del fucile, mi portarono
insieme agli altri in un albergo in città. Che impressione! Sembrava di essere in un altro mondo, strade buie e deserte,
case fatiscenti edificate dal regime comunista e in giro si vedeva solo qualche losco individuo. L’albergo in compenso
era lussuosissimo, specialmente se paragonato a ciò che avevo visto nei dintorni!
Dopo un’ottima cena andai a letto alle due del mattino. Non riuscii a chiudere occhio pensando a quanto mi era capitato
e oltretutto non riuscivo a comunicare telefonicamente con i miei in Italia per comunicare il mio arrivo.
Alle 5 ci fu la sveglia e salimmo a bordo di un pulmino tutto scassato con il quale facemmo circa 1100 chilometri
attraversando paesini, città, piantagioni sconfinate di mais e pinete di una bellezza straordinaria.
Il paesaggio era incantevole, ma il mio stato d’animo non mi consentiva di gustare a pieno la bellezza dei posti.
Ci fermammo diverse volte lungo al strada per mangiare e per i nostri bisogni corporali. Il mio malumore cresceva
sempre di più anche perché, pur costeggiando posti eccellenti per la caccia agli acquatici non si vedeva volare nulla,
tranne che zanzare assatanate.
Intanto i miei nuovi amici mi consolavano e cercavano di rassicurarmi che comunque un’arma l’avrei reperita anche perché
un paio di essi avevano seco più di un fucile e che la guida confermava la presenza sul posto di caccia di parecchia
selvaggina.
Mi tranquillizzai soltanto quando all’una di notte arrivammo ad Atmanai, base di partenza per le nostre battute di
caccia e l’organizzatore della spedizione, venuto a conoscenza dell’accaduto, mi mise subito a disposizione un fucile
automatico Benelli.
Confermò quanto aveva detto la guida che il delta del Dniepr, nelle cui vicinanze ci trovavamo, pullulava di selvatici,
soprattutto germani e oche. Andai a letto speranzoso ignaro che i miei guai non erano finiti.
Alle tre e mezza sveglia. Misi tutto fuori dai bagagli e… sorpresa!
L’armiere presso cui avevo acquistato le cartucce e parte dell’abbigliamento compreso un paio di stivali lunghi aveva
commesso un errore madornale!
Mi aveva dato due stivali dello stesso piede, precisamente quello sinistro. In quel momento vidi tutti i santi del
paradiso e mandai loro un saluto particolare.
Trafelato andai dall’organizzatore che a pagamento mi fornì un paio di stivali nuovi di produzione rumena che pesavano
5 chili l’uno ed erano di misura 46, mentre io calzo il 44.
Non sapevo più se ridere o piangere, ma comunque presi il toro per le corna e finalmente con Tonino, uno dei miei
compagni di battuta e Volioda l’accompagnatore Ukraino, dopo circa 6 Kilometri di strada fatta con un pik-up enorme
entrammo nella palude.
Un vero paradiso! Non si vedeva nulla, ma il vociare delle anatre e delle oche era musica per le nostre orecchie.
Dopo aver posizionato gli stampi, prendemmo posizione a una centinaio di metri di distanza l’uno dal’altro.
Azionai il richiamo e prima ancora che cominciassero ad arrivare le anatre, fui assalito da milioni di zanzare fameliche
che nemmeno l’autan riusciva a tenere lontane!
Questo problema lo risolsi azionando un apparecchio ad ultrasuoni che riproduceva il verso delle zanzare maschio, per
cui le femmine, che sono quelle che pungono, non ne accettavano la presenza, essendo il periodo della deposizione
delle uova e si tenevano lontane da me a distanza di circa un metro.
Ai primi albori scoppiò letteralmente la guerra. Germani da tutte le parti, che si avvicinavano agli stampi come le
allodole sullo specchietto. Realizzai subito che se avessi sparato sconsideratamente a tutte le anatre e non a quelle
più grosse e a tiro avrei presto finito non solo le cartucce che mi ero portato dietro, ma anche quelle che avevo
nella casa di caccia. Dico quelle più grosse perché i germani in quel posto erano nidificanti e parecchi erano
esemplari giovanissimi.
Dopo i primi tiri e dopo che avevo già buttato giù una decina di germani, il mio fucile cominciò ad incepparsi,
peraltro nel momento meno opportuno, quando cioè i germani o le alzavole entravano nel gioco.
Ero costretto a espellere la cartuccia, ricaricare e a sparare il più delle volte quando le anatre erano fuori
tiro. Una vera iella.
Intanto centinaia di beccaccini e pivieri mi giravano attorno ma dopo averne uccisi alcuni, decisi di non spararne
più proprio per conservare le cartucce per prede più sostanziose.
Verso le nove il passo si fermò e alle dieci Volioda venne a riprenderci e a portarci alla casa di caccia. Avevo
incarnierato 20 germani, tre alzavole, cinque pivieri e due beccaccini. Il mio amico aveva fatto la sua
parte, uccidendo un numero imprecisato di beccaccini, in quanto appassionato beccaccinista.
Io comunque ero contentissimo, visto soprattutto come si erano presentate le cose. Dopo un ottimo pranzo a base di
pietanze russe, innaffiate da vodka bevuta al posto dell’acqua, andammo a riposare.
Alle 16.00 ripartenza per una nuova battuta di caccia.
Non era lo stesso posto della mattina, ma era egualmente stupendo. Intanto il tempo era cambiato e si mise a piovere
a diluvio universale. Equipaggiato con impermeabile mi diressi verso la postazione.
L’acqua non arrivava al di sopra del polpaccio, ma raggiungere l’appostamento fu faticosissimo perché c’era molto
fango e gli stivali rimanevano spesso incastrati. Posata la stamperia e azionati i richiami, cominciai a vedere i
primi voli, ma il tiro si dimostrò subito difficoltoso per via della pioggia battente. Il cappuccio si calava davanti
agli occhi, gli occhiali mi si riempivano d’acqua. Niente germani, ma tantissime alzavole, proprio perché l’acqua era
molto bassa e c’era molta vegetazione palustre.
Cacciai sino alle dieci di sera, quando finalmente cessò di piovere, alla luce della luna che finalmente era comparsa
tra le nuvole. Ombre furtive mi volavano intorno, singole o a gruppetti. Ogni tanto Il lampo della fucilata e qualche
volta il tonfo nell’acqua.. Recuperare tutti gli animali abbattuti fu impossibile. Uno spettacolo indimenticabile.
Ritornai al fuoristrada, mentre il cielo era attraversato da migliaia di uccelli, tra cui tantissime oche che
lanciavano il loro richiamo assordante. Una cosa da non credere e forse mai più rivedrò.
Avevo ammazzato parecchie alzavole, ma ne avevo recuperato solo dieci.
Nel ritornare alla casa di caccia, intravidi davanti ai fari del fuoristrada tantissime lepri, sembrava di stare
in una conigliera! Erano usciti allo scoperto dopo la pioggia per pasturare in una immensa stoppia.
Anche i miei amici avevano fatto bottino, anche se non come alla mattina. Il vento e la pioggia avevano in parte
pregiudicato anche per loro l’esito della battuta.
Dopo una lauta cena, e dopo aver finalmente parlato con i miei in Italia utilizzando un collegamento ponte, me ne
andai a letto.
Il giorno dopo sveglia alle 4.00 Con il solito pick-up mi portarono in un altro posto di caccia. All’alba nuovo
assalto delle zanzare, e poi ancora centinaia di germani che sorvolavano l’appostamento; alcuni di essi si fecero
fucilare come allodole. Alle nove avevo finito quasi tutte le cartucce. Ancora una volta il fucile aveva fatto cilecca
e mi aveva fatto perdere delle occasioni grandiose.
Mi erano rimaste una decina di colpi a piombo piccolo.
Siccome era uscito il sole e il passo era fermo, decisi di uscire dall’appostamento per sgranchirmi un po’ le gambe,
anche perché volevo cercare di recuperare un germano che era caduto poco distante.
Appena fatto pochi metri quando sentii il mio amico Tonino che mi dava voce, mi girai e vidi un’oca che venia verso
la mia direzione. Era un uccello maestoso che volava piano piano a circa venti metri di altezza. Rimasi immobile, e
quando arrivò a tiro la buttai giù di primo colpo a piombo 10. La gioia fu immensa perché non ne avevo mai sparata
una e il tonfo che fece nell’acqua me lo ricordo ancora. Recuperata l’oca, ritornai subito all’appostamento perché
avevo visto un gruppetto di oche che sembrava venisse nella mia direzione. Avevo solo piombo piccolo, ma non disperai.
Rimasi nascosto e immobile fino a quando il branchetto non curò il gioco, mi alzai di scatto e sparai gli ultimi colpi
a mia disposizione. Ne cadde una, enorme. Doveva essere un esemplare vecchio.
Non rimase uccisa sul colpo e chiamai Volioda che era poco distante per cercare di recuperarla. Nel tentativo di
agguantarla il povero ukraino fece un tonfo nell’acqua simile a quello dell’oca. La prese per una zampa e si buscò
anche una beccata sul braccio!. Io ridevo a crepapelle anche perché l’accompagnatore parlava con l’oca e sicuramente
le bestemmiava i morti nella sua lingua incomprensibile. Dopo una strenua lotta, ebbe ragione dell’oca ferita e le
tirò il collo.
Tornai alla casa di caccia con 25 germani 2 oche e senza cartucce. Chiesi all’organizzatore se ne avevano disponibili
e ne compari altre 300, visto che le 250 che mi ero portato dall’Italia erano finite.
A pranzo ci fu una novità.
Uno dei partecipanti alla spedizione si era portato un accompagnatore che fungeva da maggiordomo, che tra l’altro
era un abilissimo cuoco. Stanchi dell’immancabile gulash, organizzammo un pasto tutto italiano, con pasta italiana,
olio italiano e, dulcis in fundo, vino italiano.
Il maggiordomo cucinò anche divinamente parte della selvaggina che avevamo incernierato, tra cui alcune starne.
Tra i miei compagni di avventura infatti, ce ne erano due che si erano portati dietro i cani, in quanto non amavano
particolarmente la caccia palustre. Erano venuti soprattutto per far vedere della selvaggina ai loro giovani
ausiliari. Insonnoliti dalla stanchezza, dal vino e dalla vodka andammo a riposarci.
Il pomeriggio ancora acqua a catinella tant’è che la maggior parte dei miei amici preferì non uscire e a profittare
di una mezza giornata di riposo per visitare i dintorni della casa di caccia.
Io invece decisi di recarmi lo stesso a caccia.
Non ammazzai quasi nulla perché c’era un vento tremendo e le anatre non si muovevano. Di quota mia presi solo 5
alzavole e un germano.
Alla sera l’organizzatore propose per il giorno dopo una battuta di caccia alle oche. Dei miei amici alcuni
andarono con i cani a starne, altri rimasero a dormire. In due aderimmo alla proposta.
Caricate tutte le attrezzature sul solito pick-up, ancora di notte raggiungemmo l’appostamento. Si trattava di
una buca profonda scavata nel terreno al centro di una immensa stoppia.
Dopo aver posizionato gli stampi e attivato il richiamo ci infilammo nella buca tirando su di noi la rete mimetica
di copertura. L’attesa si fece spasmodica, ma intanto io avevo altro cui pensare!!!
L’organizzatore della battuta mi aveva consigliato di non mettere gli stivali, ma di calzare dei semplici scarponcini
perché la caccia si sarebbe svolta all’asciutto. Così feci. Mentre all’orizzonte si cominciava a vedere un certo
chiarore, fui assalito da milioni di zanzare che si misero a pasteggiare con il mio sangue. Mi ero dimenticato il
famoso apparecchietto e mi morsicarono dovunque. La cosa inaudita era che si posavano sui pantaloni, arrivavano
alla fine della piega e risalivano all’interno fino all’orlo dei calzettoni e lì mi pungevano. Tremendo!
All’improvviso nell’aria si sentì vociare uno stormo di oche. Trascurai immediatamente in quel momento gli insetti,
che poterono continuare indisturbati il proprio pasto. Immobili, aspettammo che arrivassero a tiro, buttammo giù la
rete di protezione e… fuoco!
Di quota mia ne ammazzai tre.
Recuperati i volatili, ci calammo di nuovo nella buca.
Dopo un po’, arrivarono altre oche, seguimmo la stessa procedura e ne morirono altre 6.
Alle 9.00 il passo si fermò del tutto e decidemmo di tornare alla base. Io avevo al mio attivo 5 oche, e un
cordone di morsi di zanzare sui polpacci e innumerevoli buchi sulla faccia e sulle mani!
Il pomeriggio, io e un altro amico decidemmo di fare la chiusura a germani.
Con il solito pickup ci recammo in una zona nuova. Il passo fino alle 18.00 fu quasi nullo. Incarnierammo una decina
di alzavole, ma dalle 18.00 in poi abbiamo visto uno spettacolo che forse sarà irripetibile.
Milioni di germani, arrivavano altissimi senza curare la stamperia e i richiami, e si gettavano al centro di una
immensa stoppia a mangiare sassolini e grano. Io e il mio amico rimanemmo a bocca aperta, senza sparare, a guardare
mentre calava l’oscurità, queste nuvole nere di selvatici che roteavano nell’aria e poi si calavano, al centro del
campo.
Erano tutti fuori tiro.
Tentammo di avvicinarci, ma si levavano di nuovo in volo per poi ritornare quando ci allontanavamo.
Così trascorse l’ultima serata di caccia in Ukraina.
Peccato che non avevo con me una cinepresa. Alle 21.00 tornammo alla casa di caccia con un magro bottino, ma con
immagini nella mente che mai più si cancelleranno.
Il giorno dopo, alle 5 del mattino salimmo a bordo del pulmino che ci aveva portato ad Atmanai e dopo 1100 Kilometri
arrivammo a Kiev. Al seguito avevamo il pickup con la cella frigorifero che conteneva tutta la selvaggina abbattuta.
Si trattava di oltre 500 germani, 80 alzavole, una quindicina di marzaiole , una cinquantina di starne e 10 oche e
un numero imprecisato di beccaccini e pivieri.
Sul pulmino discutemmo della possibilità di portare in Italia la selvaggina abbattuta. Ci dissero subito che le oche
non potevano essere trasportate, così come le marzaiole, perché a Roma la forestale ce le avrebbe sequestrate, in
quanto c’era il divieto assoluto di importarle in Italia.
Facemmo i conti di quanto ci sarebbe venuto a costare il trasporto, visto che la franchigia prevista era fino a
35 chili. Una cifra paurosa.
Prima di imbarcarmi sul volo per l’Italia avevo ancora qualche altro problema da risolvere. Dovevo dissequestrare
il mio fucile. Per fortuna i poliziotti non fecero difficoltà e l’arma mi fu restituita. Pagai l’eccesso di peso
senza fare storie, pagando forse più del dovuto, ma non mi importava. Quella selvaggina me la ero guadagnata a caro
prezzo, pagando cifre esagerate per gli stivali rigidi come due tubi di eternit, per le cartucce, di fabbricazione
rumena che lanciavano fiamme e tanto fumo, scarsamente efficaci, per tutto il veleno che avevo dovuto ingerire, e
non avevo nessuna intenzione di lasciare tutto sul posto.
Feci la fesseria di mettere le cartucce che non avevo utilizzato nella valigetta corazzata, ma il metal detector
segnalò subito la cosa. In inglese riuscii a far capire al poliziotto che avevo il regolare permesso di importazione
ed esportazione di armi e munizioni. Tra una discussione e l’altra l’aereo stava per decollare. Finalmente ebbi
ragione e mi lasciarono passare. Fui l’ultimo a salire a bordo dell’aereo.
Sono passati diversi anni da allora, ma la scena di tutti quei milioni di germani che si calavano al centro di quella
stoppia, senza lasciarsi avvicinare, continua a turbare i miei sogni!
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